Operai digitali? Evitiamo facili etichette

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MILANO – Proletari digitali, operai 2.0, web-guru fricchettone. Forse basterebbero solo queste etichette per capire come ci sia qualcosa che non va nell’articolo di Francesca Sironi pubblicato su L’Espresso il 19 giugno 2014.

Un primo sguardo ai numeri. Secondo i dati Istat del 2011 riportati dalla Sironi, i lavoratori digitali sono 450.606. Bisogna capire chi sono realmente gli operatori dell’ICT per l’Istat o sarebbe stato opportuno citare nell’articolo quali settori raggruppa l’istituto italiano di statistica.

Se invece guardiamo ai dati dell’Assintel Report 2012 sono un milione di cui circa 600mila sono lavoratori perlopiù con partita IVA e contratti atipici e il restante lavoratori contrattualizzati nei vari settori del commercio, turismo e servizi.

Se guardiamo ancora ai dati CNEL del 2009 presentati in occasione di un seminario dal titolo “ICT, occupazione, produttività” del 27 novembre 2012, sono 721.654 i lavoratori nel settore ICT. Insomma, la solita guerra dei numeri.

Altro limite dell’articolo è la classificazione di questi profili professionali: montatore, content editor, seo, sviluppatore, censore, data-entry, sound designer, motion designer. Di queste, solo una è corretta (sviluppatore), il resto sono di fantasia o solo in parte giuste perché rientrano nei profili professionali ma in termini di competenze specifiche.

Se da un lato è vero che nei contratti nazionali italiani i profili sono rimasti indietro rispetto al quadro delle nuove professioni e urge rinnovamento, dall’altro lato è presente un quadro di riferimento delle competenze digitali, (l’e-CF) su cui l’Agenda Digitale italiana, seguendo il lavoro dell’Agenda europea, e diversi portatori d’interesse stanno puntando ormai da qualche anno per definire profili professionali di competenze digitali.

Un ultimo aspetto riguarda gli intervistati. Francesco Wil Grandis, in arte Wandering Wil, ovvero uno degli intervistati si è lamentato, oltre al taglio apocalittico dell’articolo, del fatto che l’autrice del pezzo abbia scritto tutto l’opposto di ciò che aveva dichiarato. Inoltre, ha provato a commentare l’articolo proprio per denunciare il fatto ma il suo commento non è stato pubblicato (potete leggerlo sulla sua pagina Facebook).

Stupisce ancor di più l’intervista realizzata al “serissimo 74enne, docente di Scienze dell’organizzazione aziendale alla Sapienza di Roma e presidente della fondazione Irso che di questi temi si occupa: Federico Butera”.

Butera denuncia la mancanza di indagini occupazionali serie. Ma allora i suddetti dati (compresi quelli della giornalista riferendosi all’Istat) sono fasulli? I vari studi fatti da sindacati, associazioni datoriali, associazioni europee, università e fondazioni sono basati sul nulla? Potranno avere dei limiti ma dubito siano poco seri.

Aggiunge che questi lavori sono frammentari, dispersi. Infatti, gli esempi che riporta si possono rifare alle competenze non ai profili professionali. Dei mattoni che servono a costruire una casa professionale. L’e-CF opera proprio su questo aspetto.

Ancora secondo il docente dell’Università romana servirebbe un riconoscimento professionale più ampio e il governo dovrebbe dare strumenti per organizzare, formare e rendere più competitive queste professioni.

Citiamo la normativa tecnica UNI relativa all’attività professionale del “Professionista Web”, così come previsto dall’art. 9 della legge 4/2013 (legge sulle associazioni professionali).

Ma credo sia utile riportare anche le parole di Agostino Ragosa del gennaio 2014 su formazione e figure professionali.

E pian piano, dobbiamo dirlo, qualche passo in avanti è stato fatto. Quindi, nell’eterna lotta tra “apocalittici” e “integrati”, sarebbe bene ogni tanto porsi al centro ed evitare di dire che tutto è nero o sono tutte rose e fiori.

Oltre al fatto che una buona ricerca sui motori di ricerca con le giuste parole chiave può essere utile sia agli accademici sia ai professionisti dell’informazione. Per tenersi al passo coi tempi in un mondo che cambia giorno dopo giorno, si direbbe.

di Mario Grasso