Uno spettro s’aggira per la Rete, lo spettro della dipendenza

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Sembra essere il Regno Unito a detenere il primato di dipendenza da internet: il 18% degli studenti sotto la Union Jack sarebbe un “utilizzatore patologico”. Almeno così dicono le statistiche, che stimano la prevalenza di internet addiction fra i naviganti generalmente fra il 5 e il 10%. Ma una vera classifica è difficile da stilare, perché gli studi disponibili risultano frammentari e poco coordinati fra loro. Dai dati che emergono qua e là non è però difficile farsi un quadro, seppure approssimativo, del problema, con punte che lasciano senza parole.

In Cina sembra vivere di Instant Messaging (IM) ben il 96% dei teenager, tanto che il 10% di loro viene classificato senza esitazione “IM Addict”. In Corea è “a rischio” il 10% dei giovani, mentre in Norvegia la fascia di età più vulnerabile è quella fra i 16 e i 29 anni (19%). I dipendenti da Internet in Grecia rappresentano l’8% del totale di chi usa la rete. In generale, di tutti quelli che utilizzano i giochi online il 7% sarebbe a rischio di sviluppare una dipendenza psicologica e comportamentale: la sviluppa, in particolare, più del 15% di chi pratica giochi di ruolo in rete (MMORPG). Nel nostro Paese più del 50% dei giovani fra i 12 e i 14 anni ha un profilo su Facebook e utilizza chat e sistemi di messaggistica (75%), come ha recentemente stimato la Società Italiana di Pediatria. Secondo lo psichiatra Federico Tonioni, responsabile di uno dei primi ambulatori ospedalieri che in Italia hanno trattato la dipendenza da internet, almeno due iscritti a Facebook ogni dieci potrebbero diventarne dipendenti.

Capita a tutti di passare ore davanti a quella favolosa macchina infernale che è il computer e di punto in bianco alzarsi dalla sedia chiedendosi: “cosa ho combinato oggi?” Si sente in giro addirittura di alcuni che per evitare di “perdersi via” su internet utilizzano il tirocinante di turno a mo’ di guardia svizzera, pronto a richiamare all’ordine il luminare al primo segno di cedimento… A parte gli scherzi, in un mondo sopraffatto dagli scambi digitali, in cui capita di passarci davvero al terminale la giornata (per lavoro) e la nottata (per ottemperare degnamente alle richieste di sedicenti “amici” sempre più numerosi e asfissianti), come è possibile capire quando uno è dipendente da internet o ne sta solo un po’ abusando? E poi, abusando rispetto a cosa? Qual è il “giusto limite”? E che fare allora quando non si può più nemmeno abbandonare il mezzo a se stesso, chiudendolo a chiave nella stanza, per prendersi un attimo di tregua, ora che il computer ce lo portiamo addosso? La dipendenza dai cosiddetti “smartphone” è peggiore di quella da internet o è la stessa cosa, in altra forma? Chi può dirlo. Io un’idea me la sono fatta, per via empirica, perché certe sensazioni “tossiche” le ho provate solo al tastierino di un noto telefono tuttofare che mi accompagna ormai in ogni dove, tanto è comodo e ormai insostituibile (ovviamente).

Intanto bisogna capirsi su cosa si intenda per dipendenza. Gli americani del NIDA (branca dell’NIH che si occupa dell’abuso di droghe) spiegano che l’esposizione cronica a certe sostanze altera il modo in cui le strutture del cervello interagiscono fra di loro per controllare e inibire il comportamento di abuso, che, se continuato, può portare a sviluppare “tolleranza”, cioè al bisogno di assumerne in dosi sempre più elevate per ottenere lo stesso effetto di un tempo: ecco la dipendenza. Da questo momento in poi la persona ricerca spasmodicamente la droga allo scopo di usarla compulsivamente, cioè senza essere più in grado di controllare il proprio comportamento. Inutile aggiungere che questa condizione patologica limita di molto la capacità decisionale di una persona e la sua libertà di azione.

Ma anche con Internet può succedere la stessa cosa? Per essere più chiari, anche Internet può diventare una “droga”? Helpguide, portale informativo sulla salute realizzato in collaborazione con la Harvard Medical School, sostiene che il termine Internet Addiction è un ombrellone sotto cui oggi possiamo infilare una varietà di problemi comportamentali legati al controllo degli “impulsi digitali”, dai più classici ai più recenti, quali la computer addiction (stare ossessivamente a fare giochi o “scrivere codice” al computer), la cybersex addiction (frequentare compulsivamente siti di pornografia), la cyber-relationship addiction (altrimenti detta “dipendenza da social network”, in cui gli amici in rete diventano più importanti di quelli in carne e ossa), la information overload (ossia la ricerca compulsiva di informazioni su motori e database, cosa che paradossalmente riduce la produttività al lavoro invece di aumentarla), e una serie di altre net compulsions quali il gioco d’azzardo online, l’uso compulsivo di siti di finanza e di aste, che troppo spesso sono causa veri e propri dissesti finanziari personali e familiari. Purtroppo, come accennato poc’anzi, non vi sono parametri quantitativi per misurare il grado di dipendenza da internet, nemmeno per dire con assoluta certezza se siamo già all’ingresso del tunnel o meno. Non c’è una formula valida per tutti, come ad esempio un numero massimo di ore o di operazioni in rete superata la quale soglia far scattare il time-out. Sarebbe troppo facile. E lo sappiamo bene che certe cose dipendono molto anche dalla nostra vulnerabilità personale.

Secondo gli amici di Harvard vi sono però dei “segnali d’allarme” che possono indicare un utilizzo problematico del mezzo, come perdere la cognizione del tempo trascorso alla tastiera, avere difficoltà a portare a compimento incarichi di lavoro o a occuparsi delle faccende domestiche (la sindrome da frigorifero vuoto per capirci), il progressivo isolamento da amici e familiari, il provare un senso latente di colpa o lo stare sempre sulle difensive cercando di nascondere agli altri la verità sul tempo passato in rete, infine sentirsi particolarmente euforici quando si è “connessi”. Non solo, è buona cosa prestare attenzione anche a eventuali sintomi fisici come affaticamento della vista, mal di testa, dolori al collo e alla schiena, disturbi del sonno, aumento o perdita significativa di peso. Inoltre alcuni studi riportano un aumento di ansia e depressione nelle persone che vivono gran parte del loro tempo nel mondo digitale, e qualche caso di comportamento autolesivo. E’ ancora più interessante poi capire se l’eccessivo utilizzo di internet può disturbare in qualche modo le nostre abilità cognitive o intellettive che dir si voglia.

Proprio in questi giorni i ricercatori dell’Università di Seoul (Corea) hanno fatto uscire su Psychiatry Research uno studio condotto su un centinaio di studenti, metà dipendenti e metà no, in cui viene dimostrato per la prima volta che gli “internet addicted” avrebbero una minore “intelligenza sociale” rispetto ai coetanei morigerati, presentando infatti punteggi significativamente inferiori alle “scale di comprensione” di una batteria per la misurazione del QI che valutano la capacità di “giudizio etico” e il “test di realtà” del soggetto. Ma, sottolineano opportunamente i coreani, non è ancora chiaro se sia la dipendenza da internet a causare problemi cognitivi o se sia invece vero il contrario (il bello delle correlazioni). In ogni modo, aveva proprio ragione quella tale Baronessa che dalle pagine del Daily Mail lanciava poco tempo fa un accorato allarme sul pericolo dell’utilizzo eccessivo da parte degli adolescenti dei social network, che sarebbero in grado di “produrre profondi cambiamenti nel cervello dei giovani, riducendone l’attenzione, incoraggiando la gratificazione istantanea, rendendoli sempre più individualisti, azzerandone le relazioni umane reali, riducendo la loro empatia verso gli altri, facendoli regredire a uno stadio infantile”.

La denuncia di Susan Greenfield, direttore della Royal Institution of Great Britain, nonché affermata neuroscienziata dell’Università di Oxford, aveva in seguito campeggiato sulle pagine di tutti i giornali del mondo, incontrando la preoccupazione di tanti genitori e insegnanti convinti che gli adolescenti, senza i loro terminali, non sarebbero più capaci di comunicare né di concentrarsi. La spiegazione scientifica della Greenfield è che la ripetuta esposizione ai nuovi media possa dare luogo a un vero e proprio “ricablaggio” (rewiring) delle connessioni fra i neuroni del cervello, così come accade utilizzando esageratamente videogiochi e televisione. D’altro canto, era sempre Lady Science a pensare che le persone con autismo, che generalmente presentano difficoltà di comunicazione col mondo esterno, si troverebbero invece a loro agio utilizzando il computer: “di certo – dice la Baronessa – non sappiamo se l’aumento della prevalenza di autismo fra i giovani sia dovuta a una maggiore accortezza diagnostica da parte dei clinici o se tale fenomeno possa correlarsi in qualche modo all’incremento del tempo speso nelle relazioni virtuali tramite computer; sicuramente quest’ultima è una ipotesi da tenere in debita considerazione”. Mah, un po’ azzardata forse come ipotesi scientifica…

Comunque, anche solo per curiosità, chi volesse guardarsi un attimo allo specchio alla ricerca di qualche ruga da internet-dipendenza, può provare a rispondere alle domande dell’Internet Addiction Test (in inglese) messo a punto dall’Università di Cardiff e vedere cosa ne viene fuori. Ma senza perdersi d’animo se risulta soltanto una persona normale, perché c’è sempre tempo per diventare digitossico.