Sharing Economy Act: 4 limiti e 1 proposta

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Sharing Economy Act: 4 limiti e 1 proposta

La Sharing Economy Act è in consultazione pubblica dal 2 marzo fino al 31 maggio 2016. La proposta di legge è stata scritta dall’Intergruppo Parlamentare Sull’Innovazione (Tentori, Palmieri, Catalano, Boccadutri, Bonomo, Bruno Bossio, Coppola, Galgano, Quintarelli e Basso).

La SEA è sicuramente il primo passo per definire il destino delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e più in generale dell’economia della condivisione in Italia.

Sharing Economy Act: la proposta di legge

A detta dei proponenti, la SEA è importante “perché pensiamo possa rappresentare un passo importante di cambiamento anche culturale della società italiana e che sia necessario, come per tutti i temi di primaria importanza, che la legislazione sia frutto di un ampio dibattito pubblico. La regolazione di questo tema è, inoltre, estremamente controversa e crediamo che coinvolgere il più ampio numero di competenze sia necessario per migliorare la proposta”.

La bozza prevede un’introduzione e 12 articoli (Finalità, Definizioni, Compiti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Documento di politica aziendale, Fiscalità, Misure annuali per la diffusione dell’economia della condivisione, Tutela della riservatezza, Linee guida, Monitoraggio, Controlli e sanzioni, Norme transitorie, Disposizioni finanziarie).

La Sharing Economy in Italia

Su una ricerca di Collaboriamo.org e dell’università Cattolica di Milano si dichiara che le piattaforme collaborative italiane nel 2015 siano 186 (+34,7 per cento rispetto al 2014).

Tra i settori più interessati ci sono il crowdfunding (69 piattaforme), i trasporti (22), i servizi di scambio di beni di consumo (18) e il turismo (17).

Se da un lato, secondo le risposte dei partecipanti, c’è un cambiamento continuo delle piattaforme collaborative italiane all’insegna della sperimentazione, dall’altro lato è presente una certa difficoltà di crescita di questi servizi

Mancano, secondo gli imprenditori intervistati, finanziamenti (per il 73 per cento degli intervistati), cultura (47 per cento) e partnership con grandi aziende (58 per cento).

Di contro una ricerca di TNS Italia rileva che il 25 per cento degli italiani che navigano su internet sta già utilizzando i servizi collaborativi.

Secondo lo studio internazionale Pwc del 2015 dal titolo Consumer Intelligence Series: The Sharing economy, l’economia collaborativa è potenzialmente in grado di accrescere le entrate globali dagli attuali 13 miliardi di euro circa a 300 miliardi di euro entro il 2025.

I limiti della Sharing Economy Act

Sicuramente la scarsa partecipazione alla consultazione pubblica. Basta contare i numeri dei commenti e, ancora meglio, il numero effettivo dei partecipanti per capire come la partecipazione online sia sempre sbandierata ai quattro venti come la panacea di ogni male ma nella pratica vede sempre partecipare pochi e con contributi, in alcuni casi, discutibili.

Un altro elemento critico è la definizione della Sharing Economy. Basta fare una ricerca del termine sui motori di ricerca per constatare come siano diverse le interpretazioni e come a cose diverse venga affibbiato il termine di Sharing Economy.

Su questo punto anche la definizione proposta dal gruppo parlamentare per l’innovazione è molto generica e si presta a varie interpretazioni.

D’altronde, anche tra quei pochi utenti che hanno commentato la Sharing Economy Act, si può notare come ci sia chi pone l’accento sulla confusione tra quello che vuole regolare la legge e il significato del termine.

Altra diatriba in corso è sulla libertà d’azione degli utenti delle piattaforme di Sharing Economy. C’è chi vede nella proposta di legge una forte barriera d’ingresso per le realtà più piccole e in fase di avvio, c’è chi ha forti dubbi sul ruolo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, o chi vede questo provvedimento basato sulla punizione più che sull’incentivo alla produttività.

Ultimo limite della proposta è sicuramente l’assenza di un personaggio chiave nel rapporto tra i vari utenti delle piattaforme: il lavoratore.

Se è vero che si parla di fiscalità all’articolo 5, solo un utente ha aggiunto un commento sulla necessità di attivare un sistema previdenziale per i lavoratori della Sharing Economy per evitare effetti di dumping.

L’esempio di mTurk di Amazon deve servire da monito per evitare che chi usi queste piattaforme come impiego principale sia tagliato fuori dal sistema pensionistico, dagli strumenti di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, da atti discriminatori, dall’indennità di malattia, da retribuzioni misere e dalla disoccupazione.

La Sharing Economy Act su questo aspetto parla chiaro: “Tra gestori e utenti non sussiste alcun rapporto di lavoro subordinato”.

Allora non sarebbe opportuno pensare a dei benefit portatili? La proposta avanzata negli Stati Uniti da alcuni leader sindacali, imprenditori e accademici è di creare una rete di sicurezza per tutti i lavoratori indipendenti dando stabilità e flessibilità allo stesso tempo.

Il concetto di base è semplice: legare i benefit del lavoro derivante dalle attività di Sharing Economy direttamente ai lavoratori, non al datore di lavoro.

Potrebbe essere questa una strada da percorrere per una Sharing Economy italiana che guardi alla tutela e ai diritti di chi condivide le proprie competenze in forma di beni e servizi?

Foto: FreeImages.com/JoeZlomek

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