Proletari digitali, facciamo chiarezza

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Proletari digitali, facciamo chiarezza

Anche la Repubblica inciampa nel teatrone digitale italiano. Sono diverse le “imprecisioni” presenti nell’articolo pubblicato a pagina 4 domenica 1 maggio 2016 (sì, nel giorno della festa dei lavoratori!) dal titolo «Istruiti, pagati poco e sempre on line mezzo milione di proletari digitali» scritto a quattro mani da Roberto Mania e Filippo Santelli.

Partiamo dai numeri

Mettono in evidenza gli esperti ICT che mancheranno in Italia (almeno 200 mila) secondo la Commissione Europea. Non è proprio così.

Secondo lo studio condotto da Empirica, società di ricerca tedesca cui è stato commissionato il lavoro di indagine menzionato, gli esperti ICT che mancheranno in Italia da qui al 2020 saranno circa 110 mila. Vedi questo articolo per approfondire.

Per essere ancora più precisi, il dato citato sopra si riferisce allo scenario peggiore ipotizzato da Werner Korte, Direttore dell’istituto di ricerca europeo. Mentre il dato minimo è di 60/80mila unità.

I contratti dei proletari digitali

Passiamo ai contratti applicati ai lavoratori del settore. Perché di questi stiamo parlando dato che sono stati riportati i numeri di Eurostat (558mila) per indicare il totale di occupati nel settore ICT in Italia, oltre alla percentuale (85%) di uomini impiegati nel settore e quanti laureati risultano assunti.

Ebbene, nell’articolo ritroviamo che i lavoratori del web sono stati finora inquadrati come metalmeccanici. Se in Italia aziende come HP, Microsoft, Nest2, Adobe, Dell, Epson, Canon, Altran, SAP (giusto per citarne alcune) applicano il CCNL Terziario ci sarà un perché.

Infatti, il CCNL Terziario firmato a marzo 2015 da UILTuCS, Filcams Fisascat e Confcommercio prevede un articolo specifico di aggiornamento sui profili ICT che adotta l’e-CF (il quadro europeo delle competenze digitali) che rende il suddetto Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro il primo, e finora unico, in Italia a essere in linea con gli standard europei.

Tra l’altro, nell’articolo si fa riferimento alle norme tecniche del consorzio UNI che si rifanno proprio all’e-CF del CCNL Terziario. Sarebbe stato bello legare le due buone pratiche come esempio di un associazionismo sindacale e non che sta al passo coi tempi in ambito tecnologico.

Questo dimostra come l’articolo offra una visione parziale dei dipendenti italiani alle prese con l’Information and Communication Technology. A maggior ragione del fatto che oggi il lavoro nel nostro Paese stia andando sempre più verso la terziarizzazione, servizi e prodotti informatici inclusi.

Peccato, poteva essere un’occasione per allargare il ventaglio di informazioni da condividere con i lettori e i proletari digitali.

Il sindacato e i lavoratori ICT

Anche dal punto di vista sindacale, si è mostrata solo una piccola fetta della realtà ICT italiana.

Se da un lato è vero che c’è una rappresentanza dei lavoratori autonomi e delle partite IVA, i numeri dell’articolo si rifanno ai lavoratori dipendenti (vedi i succitati dati Eurostat) che ancora oggi sono tutelati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative del settore terziario.

Conclusioni

Forse è solo un’altra occasione perduta per parlare di buone pratiche e azioni concrete svolte dal sindacato? Forse si è preferito l’inserimento dei rappresentanti dei lavoratori sempre nella cornice delle lamentele, dei “gufi” come va di moda dire oggi?

Perché fino a quando giornalisti e addetti ai lavori inquadrano i lavoratori del web come metalmeccanici tra viti e bulloni (anche se è vero che esistono dei casi e sarebbe bene mettere un po’ di ordine tra le categorie sindacali e datoriali definendo i confini delle declaratorie) sarà la sconfitta di una rappresentanza che con difficoltà diffonde la sua azione all’interno del dibattito sul moderno mondo del lavoro.

Speriamo che questo brutto scivolone di uno dei più autorevoli quotidiani italiani, insieme a questo contributo, possa servire a migliorare il dibattito sulla stampa e sui proletari digitali in Italia.