Intervista speciale della nostra rubrica “Personaggi tecnologici”. Parliamo di programmatori, formazione, on demand economy e tanto altro con Raffaele Gaito: salernitano, informatico, classe ’84.
Cresciuto a camille e robottoni giapponesi. Programmatore dall’età di 15 anni, imprenditore da 20 anni in poi, oggi si dedica alla consulenza aziendale e alla formazione.
Un botta e risposta su alcuni temi caldi per chi si occupa di programmazione in Italia.
Ti definisci un “multipotenziale”, dato il tuo intreccio di conoscenze e passioni. Ai programmatori di professione, cosa consiglieresti di sviluppare a livello di “soft skills”?
Con questa domanda tocchi un nervo scoperto. Io nasco programmatore (laurea in Informatica a Salerno) e per molti anni sono stato un programmatore full stack, anche nelle aziende che avevo fondato.
Fin da ragazzino però, ho sempre avuto mille interessi diversi e, avendo anche un forte spirito imprenditoriale, mi rendevo conto che la programmazione da sola non bastava per quello che volevo fare. Proprio per questo motivo negli anni ho intrapreso percorsi paralleli di formazione su aspetti di business, di marketing, e così via. Ecco da dove nasce il mio auto definirmi “multipotenziale”.
La questione delle “soft skill” che hai sollevato è un aspetto molto importante che, purtroppo, è sottovalutato da parecchi programmatori. Lo vedevo 10 anni fa tra i banchi dell’università e lo vedo ancora oggi guardando dal “lato imprenditore”.
Essere bravo solo su aspetti tecnici non è abbastanza. Non più. Non in questo mercato del lavoro. E non tutti i programmatori l’hanno capito.
Sempre più aziende cercano persone che abbiamo sviluppato un cosiddetto “profilo a T” nel quale affiancano a una ottima conoscenza tecnica anche capacità di altro tipo. Tra cui le “soft skill”, appunto.
Per capire quali sono le principali basta leggersi gli annunci di lavoro delle grosse aziende IT americane. Tutte cercano: ottime doti comunicative, capacità di problem solving, abilità nel lavorare in team, leadership, intelligenza emotiva, critical thinking, ecc.
È difficile fare una selezione e dire su quali bisogna concentrarsi, anche perché la maggior parte non puoi apprenderle sui libri. Se ne dovessi scegliere due, direi che oggi è necessario sviluppare delle buoni doti comunicative (soprattutto la capacità di parlare in pubblico) ed essere in grado di lavorare in team, con tutto quello che ne comporta.
Vista la rapida evoluzione dei linguaggi di programmazione, quale/i consiglieresti a un programmatore alle prime armi?
Questa è una domanda rischiosa, perché il mondo della programmazione è continuamente sottoposto a guerre di religione tra i vari linguaggi.
Come in altri contesti, anche nel mondo della programmazione, queste “guerre” lasciano il tempo che trovano. Non esiste il linguaggio perfetto in assoluto. Esiste un linguaggio migliore per un progetto, per un’esigenza, per un’azienda o per un team.
Dare un consiglio su una cosa del genere non è facile. Quando fai un percorso di studi orientato alla programmazione hai degli step più o meno definiti, che sono necessari a creare anche delle conoscenze teoriche di base utili nel lungo periodo.
Discorso molto diverso è quando si studia da autodidatta e lo si fa per esigenze lavorative. In quel caso consiglio sempre di tenere d’occhio i trend del mercato e orientarsi su linguaggi molto diffusi, molto richiesti nelle aziende IT e, soprattutto, per i quali si trova molta documentazione online e una community ampia e attiva.
Ma mi fermo qui, non mi tirerete fuori nessun nome 🙂
In Italia c’è un problema di retribuzione bassa e di poca consapevolezza del ruolo da parte manageriale per i programmatori dipendenti di azienda. Secondo te, cosa bisogna fare?
Su questo aspetto mi permetto di dissentire o, quantomeno, di non fare di tutta l’erba un fascio. Se da un lato è vero che in molte aziende non ci siano paghe accomunabili alla media europea, è anche vero che molti programmatori si accontentano del primo lavoro che trovano.
Mi capita spesso di parlare con ragazzi neolaureati che si lamentano perché in azienda li pagano 1000€ al mese. Poi però vai ad approfondire e scopri che le stesse persone non hanno mai provato a inviare un curriculum a Google, Facebook e altri big che hanno sedi anche in Italia (e assumono di continuo!); non hanno mai provato a lavorare per una startup, dove c’è una maggiore sensibilità verso questo tipo di figura; non hanno mai valutato l’opzione del lavoro da remoto, e quindi lavorare per un’azienda di un’altra città o, addirittura, di un’altra nazione; non hanno mai valutato l’opzione di spostarsi dalla loro città. Per me anche questo è molto grave.
In conclusione, è molto facile dare la colpa alle aziende e non valutare lo scenario nel complesso. Se l’azienda nella quale lavori non ti dà un compenso che ritieni equo devi cercare un’alternativa migliore.
Quando quell’azienda perderà i suoi migliori talenti perché saranno andati altrove, forse capirà che li stava retribuendo troppo poco.
Anche in Italia stanno prendendo pian piano piede la Gig Economy, la On-Demand Economy e le piattaforme di lavoro collaborative. Una delle professioni più richieste è proprio il programmatore. Cosa andrebbe fatto, secondo te, per tutelare questa professione?
Certo, c’è stato un boom negli ultimi 2-3 anni di piattaforme e aziende che ruotano intorno a questi modelli definiti, appunto, Gig Economy, On-Demand Economy e in tanti altri modi.
Credo che sia successo tutto molto in fretta e mentre eravamo distratti a dire “wow, si sta rivoluzionando anche quest’altro settore” non ci siamo accorti che qualcosa non funzionava nei modelli proposti.
Gli episodi relativi a Foodora negli ultimi giorni sono solo la punta dell’iceberg. In realtà sono mesi che ci sono nuovi casi del genere. Basti pensare a Homejoy, Uber, JustEat, ecc.
Il problema non è, quindi, solo dei programmatori, ma di tutte le figure coinvolte in iniziative di questo tipo. Questi modelli non sono perfetti e non lo sono mai stati, ma ce ne stiamo accorgendo solo ora.
La situazione è molto complessa e non ho la più pallida idea di quale sia la soluzione. So solo che non è semplicemente una questione economica: ci sono aspetti culturali e legislativi sui quali siamo indietro. Parecchio indietro.
La formazione è sicuramente uno dei punti strategici da intraprendere oggi. Come andrebbe sviluppata, alla luce dei cambiamenti tecnologici in atto nelle aziende?
Io sono un grande fan della formazione online. Negli ultimi tempi ne ho parlato spesso, sia dal vivo che in alcuni miei post.
Viviamo in un’epoca meravigliosa dove abbiamo un accesso alla conoscenza mai visto prima. Chi non ne approfitta sta perdendo una delle occasioni più grosse degli ultimi tempi.
Negli Stati Uniti c’è un trend interessante che si sta sviluppando negli ultimi anni, e che unisce proprio la formazione online e la formazione in azienda. Molte realtà si sono accorte, infatti, che facendo formare i loro dipendenti tramite le piattaforme MOOC riescono ad abbattere notevolmente i costi e i tempi della formazione.
A questo aggiungi il fatto che le più importanti piattaforme MOOC americane ormai rilasciano certificati riconosciuti ufficialmente e capirai perché si sta andando in quella direzione.
Ecco, non dico che questa sia la soluzione migliore, ma è sicuramente un elemento che anche le aziende italiane dovrebbero iniziare a valutare e inserire nella loro strategia di formazione per i dipendenti.