Foodora, a Milano c’è chi dice no alla gig economy

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Foodora, a Milano c’è chi dice no alla gig economy

Mentre la vicenda Foodora va avanti e sembra che l’azienda il 2 novembre voglia incontrare i lavoratori (a porte chiuse, però), sono diverse le storie che emergono dai racconti dei fattorini dell’azienda tedesca.

Se a Torino la dimostrazione dei “riders” è stata abbastanza forte che ha mobilitato media e istituzioni, a Milano non sembra ci sia stata la stessa agitazione.

Tuttavia, siamo riusciti a cogliere la testimonianza personale di un lavoratore milanese che ha voluto raccontare la sua avventura, dai tratti sicuramente forti e critici, su due ruote per Foodora.

Mattia, 32 anni, ha lavorato per Foodora all’incirca per un anno, dall’ottobre 2015 a metà settembre 2016, momento della rescissione del contratto.

Al momento lavora per una multinazionale concorrente con mansioni molto simili.

Com’è stata la tua esperienza lavorativa con Foodora?

«Ho iniziato questo lavoro ritenendo che avesse le caratteristiche adatte alle mie necessità di quel preciso momento.

Per me era importante lavorare all’aperto, non dietro un computer, e con la possibilità di modulare le ore per ritagliarmi un part-time ad hoc nelle ore mattutine-pomeridiane, in modo da lasciarmi libero il tardo pomeriggio e la sera per impegni miei pregressi.

La proposta contrattuale iniziale sembrava abbastanza in linea con queste mie necessità, per quanto scadente.

Invece la seconda condizione è andata via via deteriorandosi con il passare dei mesi, laddove ai rider veniva richiesta una disponibilità serale fissa e soprattutto nei weekend, pena una minore considerazione delle candidature, solleciti continui, più o meno velate pressioni.

Non piegandomi a questi “diktat”, ho perso progressivamente il diritto ai turni del pranzo settimanali, lavorando via via sempre meno.

Intorno a primavera 2016, la mia costanza nell’offrire disponibilità per turni fissi a pranzo, e le mie sollecitazioni verso alcuni diretti responsabili all’assegnazione turni con cui avevo creato in qualche modo un rapporto di fiducia reciproca, mi hanno permesso di tornare a lavorare 5 giorni su 7 senza la spada di Damocle dell’accettazione turni che pende sulle teste di tutti i lavoratori Foodora.

In compenso le ore disponibili nel turno del pranzo si erano ridotte ulteriormente, arrivando di media a 2,5 al giorno per un totale di meno di 15 ore settimanali.

In pratica, o mi piegavo in toto alle volontà dell’azienda e al modello lavorativo che stavano mettendo in atto (taglio turni continuo, anche in tempo reale durante il turno stesso; precedenza ai motorini per coprire tutta la città con pochissimi dipendenti durante le ore non strettamente di punta; dipendenti con condizioni contrattuali diverse e in conflitto, in modo da sfruttare all’osso chi aveva un contratto con pagamento orario come me durante le pochissime ore di punta, tenendo fermi invece tutti i nuovi assunti con paga a cottimo risparmiando sul loro compenso, e viceversa mandando a casa in anticipo noi e riattivando loro subito fuori dall’ora di punta, etc.) o mi sarei dovuto accontentare di pochi spiccioli.

Ho retto la situazione per alcuni mesi. Quando l’azienda ha fatto l’ulteriore passo di proporci un rinnovo di contratto in linea con le nuove assunzioni, passando quindi da un fisso orario al cottimo per tutti, ho provato a cercare una protesta compatta con i colleghi senza riuscirci, quindi ho deciso di lasciare.»

Potresti elencarci tre aspetti positivi e tre negativi di questo lavoro?

«Gli aspetti positivi sono quasi solo teorici, completamente compromessi da quelli negativi.

Diciamo che sulla carta fare il rider permetterebbe di lavorare quando si vuole, quanto si vuole e senza portarsi in alcun modo il lavoro a casa.

All’atto pratico si deve lavorare il più possibile, soprattutto nelle ore e nei giorni di punta, pena il rischio di perdere il diritto ai turni, sempre che questo sia mai stato acquisito.

Nella peggiore delle ipotesi si firma un contratto, si lavora poche manciate di ore rimaste disponibili dopo l’assalto di chi ha acquisito più diritto di te, si fanno due conti e si molla il lavoro.

È una macchina ben oliata per l’azienda, infernale per i dipendenti. Questi ultimi completamente “disposable”, per dirla all’inglese.

Non abbiamo malattia né straordinari, tutto e ripeto tutto il materiale è a carico nostro, a eccezione di quello brandizzato che l’azienda impone ai rider (una giacca e un caschetto di qualità tecnica molto discutibile, ulteriore aggravio delle condizioni di lavoro).

In particolare bici e smartphone, indispensabili per il tipo di lavoro, sono attrezzi che si usurano molto se usati in modo intensivo e richiedono riparazioni e sostituzioni continue.

I ragazzi che lo fanno in motorino, ancor di più, spendono centinaia di euro tra benzina e manutenzione, il mezzo si logora macinando chilometri e tutto questo è a carico loro. Tutto questo per 7.20 euro all’ora prima, 3,60 a consegna adesso.»

Se non dovessi trovare lavoro, torneresti a lavorare per Foodora?

«Assolutamente no. I miei rapporti con l’azienda sono irrimediabilmente compromessi dal supporto che sto provando a dare nel mio piccolo alla lotta dei rider di Torino.»

Le parole di Mattia sicuramente pongono sul tavolo diverse questioni riguardanti la gig economy, anche detta “economia dei lavoretti”.

Le condizioni lavorative, il tipo di rapporto lavorativo tra applicazione e lavoratori, le tutele per i lavoratori, gli aspetti previdenziali, una polarizzazione tra i pochi che lavorano tanto e i molti che lavorano poco su queste piattaforme collaborative di lavoro, l’uso della tecnologia, il meccanismo di reputazione digitale, solo per citarne alcuni.

Se è chiaro che da un lato esistono dei limiti (e delle opportunità) nell’utilizzo di queste piattaforme di lavoro on-demand, dall’altro il sindacato deve cercare di raccogliere i diversi spunti che emergono anche dai casi come quelli di Foodora, per fare un ragionamento più generale su come tutelare e rappresentare i bisogni dei lavoratori ai tempi della gig economy.

In modo particolare, per i sindacati italiani che rappresentano i lavoratori dei servizi e del terziario più in generale, dove la crescita di queste forme di lavoro sarà sempre più crescente da qui ai prossimi anni.

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