Start up, la nuova legge e alcuni dubbi

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MILANO – Le norme a favore delle start up contenute nel pacchetto di ‘misure urgenti per la crescita’, approvato la scorsa settimana, rappresentano senza dubbio un passo importante per il Paese, ma lasciano irrisolti alcuni dubbi.

Le critiche, che circolano anche in questi giorni sul web, si focalizzano su vari aspetti del provvedimento voluto dal governo e, in primo luogo, dal Ministro Corrado Passera.

Una prima prima osservazione è sui requisiti richiesti per accedere ai finanziamenti alle start up: il decreto prevede l’impiego di dipendenti o collaboratori (almeno 1/3 del totale) che abbiamo un titolo di dottorato di ricerca o una laurea, più almeno tre anni di ricerca certificata da istituti pubblici o privati come primo requisito (gli altri sono investimenti in Ricerca & Sviluppo superiori al 30% del valore di produzione e l’obbligo di essere titolari di brevetti industriali).

La scelta di indicare requisiti accademici per l’ammissione ai finanziamenti lascia perplessi: basta pensare a cosa hanno prodotto personaggi come Mark Zuckerberg o lo stesso Steve Jobs infatti per capire quanto si rischia a lasciar fuori i non dottorandi. Certo quelli citati non sono personaggi che si trovano tutti i giorni.

Per l’Italia è utile ricordare il recente caso di Mashape, portale fondato da tre under 30 (Marco Palladino, Michele Zonca e Augusto Marietti) che sono dovuti andare in America per il finanziamento della loro idea.

Qui hanno avuto 1,5 milioni di dollari dati elargiti, nientemeno, da Jeff Bezos (il fondatore di Amazon) e da Eric Schmidt (il presidente di Google) che hanno creduto nella start up italiana più degli stessi italiani.

Ebbene anche i ragazzi di Mashape non hanno alcun dottorato e Marco Palladino, la mente tecno del gruppo neanche una laurea (ma realizza software da quando aveva 12 anni!).

La seconda osservazione è sui costi di apertura: il decreto riduce con decisione le spese per avviare le start up (che non pagano imposte di bollo e diritti di segreteria e sono esonerate, per quattro anni, dal pagamento del diritto alle Camere di Commercio), ma sappiamo bene che nella creazione di una società incidono molto di più il versamento dell’Iva e l’anticipo sulle tasse, che rimangono eccessivamente esose. I costi reali quindi sono decisamente più alti.

Un ulteriore dubbio riguarda l’ulteriore tipologia di contratto lavorativo ‘flessibile’ introdotta dal decreto (come se non bastassero le quasi cinquanta formule di contratto lavorativo già esistenti!)

Il decreto prevede che le start up possano (in deroga alla legge Fornero) stipulare contratti di lavoro subordinato a termine, per un minimo di 6 mesi e un massimo di 3 anni, a partire dalla data di attivazione della società (e per un tempo più ristretto se l’azienda era già attiva). Una volta decorsi i termini massimi il datore, se vuole far proseguire la collaborazione professionale, deve pero’ considerarla come assunzione a tempo indeterminato.

Un’ultima osservazione e’ che parte dei soldi per le start up (3,5 milioni di euro per il 2011 e altri 105 per il 2012) sarebbero stati ‘dirottati’ dalla Cassa conguaglio per il settore elettrico, destinata a “interventi e misure per lo sviluppo tecnologico e industriale in materia”. Soldi che erano destinati allo sviluppo vanno comunque a un progetto innovativo, ci viene detto. Ma, prima o poi si riproporrà il problema di come finanziare l’efficienza energetica…

di Giuseppe de Paoli