La flex security all’italiana: più flessibilità, meno garanzie

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MILANO – Il termine flex security, ultimamente di moda, è nato per indicare una serie di interventi nell’ambito del lavoro volte a conciliare la produttività e la sicurezza per i lavoratori.

La formula, sperimentata con successo, già negli anni 90, prima in Danimarca poi in Olanda, prevede costi di licenziamento più bassi accompagnati però da sussidi di disoccupazione generosi e, soprattutto, dal fatto che lo Stato si prenda cura di aiutare chi ha perso il lavoro a trovarne un altro.

La protezione dei lavoratori, una certa flessibilità richiesta agli stessi, l’intervento attivo dello Stato, sono tre fattori essenziali (denominati infatti il golden triangle) senza cui la flex-security rimane inefficace.

L’esecutivo Monti ha già provato ad adottare il modello flex security ma è stato inadeguato nella sua applicazione proprio e soprattutto nelle parte riguardante le politiche attive del lavoro; per queste  l’Italia spende circa 5 miliardi, solo un terzo della ben piu’ piccola Danimarca, e comunque poco anche rispetto alla Germania (che spende 9 miliardi) e alla Francia (che ne spende 16).

Ben poco è stato fatto per l’orientamento allo studio e al lavoro e per rafforzare il fragile legame tra mondo universitario e mondo lavorativo; ben poco è stato fatto per formare i giovani, non in astratto ma secondo le reali necessità del mercato (la spesa 2012 per i centri all’impiego è stata di appena 447 milioni di euro).

La riforma Fornero poi non ha risolto il problema di coloro che perdono il lavoro, ai quali ha offerto sì una ciambella di salvataggio (e non a tutti) ma non prospettive per il futuro. E la stessa normativa non ha considerato con sufficiente attenzione l’inserimento nel mercato di giovani e donne.

Gli ammortizzatori sociali previsti dalla riforma, come l’Aspi, sono insufficienti e comunque tagliano fuori i collaboratori a progetto e le partite Iva, una parte lavoratrice decisiva, soprattutto nell’ambito ICT.

Tutto questo mentre gli under 35 poveri sfiorano oramai il 20% e agli stessi si affiancano sempre più spesso over 40 o 50, rimasti senza lavoro: troppo giovani per andare in pensione e considerati troppo ‘vecchi’ per tornare lavorare.

In tema pensioni infine il Belpaese s’è avvicinato agli standards europei ma per farlo ha limitato drasticamente tutte le altre voci di spesa relative allo stato sociale (malattia e invalidità, disoccupazione, interventi contro l’esclusione sociale). L’esatto contrario di quanto aveva fatto la Danimarca che ha tolto investimenti alla voce pensioni per dirottarli sulla creazione di nuova occupazione tra i giovani.

Insomma il modello flex security è stato adottato a parole, ma non nei fatti. Vero che sia il sistema danese che quello olandese hanno dei costi esosi, e non sono del tutto praticabili da noi, però anche tenere la gente in cassa integrazione per anni, come avviene normalmente in Italia, ha dei costi molto alti, non solo economicamente.

La flex security declinata all’italiana in realtà ha solo rafforzato -poco- il potere dei datori di lavoro nella gestione dei lavoratori in entrata e, soprattutto, in uscita (art 18 docet). Le politiche attive per il lavoro sono rimaste sulla carta e, soprattutto, la riforma non ha centrato l’obiettivo principale dichiarato: creare lavoro.

di Giuseppe de Paoli