MILANO – Il nuovo Contratto del settore telecomunicazioni, ipotizzato fra le parti il 1° febbraio scorso e attualmente all’esame delle assemblee dei lavoratori, introduce una nuova modifica al capitolo Telelavoro proponendo la creazione dell’Osservatorio Nazionale sul Telelavoro.
Si tratta di un Istituto Bilaterale con 12 membri, metà in rappresentanza delle parti sindacali, metà di quelle datoriali, che dovranno analizzare, proporre, confrontarsi con esperti ed altri soggetti della filiera, sempre che il loro “centro di competenze” sappia produrre sviluppo.
In caso contrario, l’Osservatorio resterà, come già avvenuto altre volte, un’occasione perduta.
Sui luoghi di lavoro, infatti, non basta decantare le tematiche relative all’utilizzo delle più moderne tecnologie ICT, occorre tradurle in fatturati e posti di lavoro.
L’Agenda Digitale ha dato una certa attenzione al telelavoro, sia prevedendone l’utilizzo per i disabili, sia spingendo la P.A., centrale e locale, a redigere un “piano per l’utilizzo del telelavoro” che va pubblicato annualmente.
Qualcosa a livello normativo è stato fatto, ma siamo ben lontano dai risultati di altri Paesi.
In America, per esempio, il Telework Enhancement Act del 2010, ha rafforzato un processo nel quale il 5.24% dei lavoratori delle Agenzie Federali (103 mila persone) sono telelavoratori.
In Italia, nel pubblico impiego, siamo allo 0,002% e per cambiare ci vorrebbe un nuovo accordo quadro, dopo quello siglato nel 2001, tra l’agenzia Aran (che fa monitoraggio sul telelavoro dal 2000) e il Pubblico Impiego.
Occorrerebbe inoltre tornare a una sorta di centralismo organizzativo sugli enti pubblici, cominciare a impostare da capo una PA davvero digitalizzata.
Meglio va nel settore privato, dove sono 95 i contratti che prevedono il telelavoro, attuato al momento per 55mila lavoratori, cioè il 7% della popolazione firmataria.
La media finale, che comprende telelavoratori del privato e pubblico, è invece attorno al 3,9% (più alta, al 5,5%, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano) mentre tra i ventisette Paesi dell’Ue supera l’8% con picchi del 16% in Danimarca.
Il lavoro mobile cresce con la maggiore autonomia decisionale imposta dal mondo InternetIntranet e dalle attività collaborative su rete, che hanno portato più autonomia, a tutti i livelli, specialmente nel settore Tlc (ma non nei call center) e minore necessità della lunga catena di comando.
La conclusione è semplice: il telelavoro è necessario, tanto più in questi tempi, non solo per l’ambiente o per favorire la nascita delle smart cities ma soprattutto per ridurre drasticamente la mobilità e le migrazioni e per i risparmi che può creare.
Il telelavoro pone però problemi esistenziali al senso delle carriere e dei livelli professionali; rende ‘liquida’ l’organizzazione del lavoro, fa confondere (potenzialmente) il controllo a distanza aziendale con quello territoriale.
Il lavoro in remoto (da casa o comunque da fuori ufficio) richiede inoltre l’applicazione di nuovi diritti come la difesa, più che della privacy, della libertà di comportamento; e sottolinea l’esigenza di un sindacato che sappia anche muoversi on line, come indicato dall’esperienza di Sindacato Networkers.
Finora invece e andata “all’italiana”: il telelavoro vivacchia, senza sindacato, senza diritti, con poca privacy e con magre consolazioni fiscali. Perché s’imponga davvero ci vuole un forte cambiamento culturale oltre che sociale e politico.
APPROFONDIMENTO: Telelavoro, le 10 cose da sapere
di Giuseppe Mele