Agenda Digitale: limiti italiani e opportunità europee

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ROMA– L’idea proposta da Stefano Parisi di Confindustria Digitale al Forum del 21 ottobre è stata quella di spingere a qualsiasi costo sull’acceleratore per centrare gli obiettivi dell’Agenda Digitale europea. Fare il digitale anche con la forza, con un Digital Compact assimilabile al Fiscal Compact che ha imposto all’Italia politiche di rigore con un rientro da 30 miliardi di euro l’anno fissato in Costituzione.

L’idea porta ad un primo interrogativo: è possibile fare politiche di sviluppo in modo coercitivo, nelle condizioni già restrittive in cui versa la libertà dello Stato di impiegare i fondi che ha a disposizione? La risposta di Confindustria è che un piano coercitivo di sviluppo digitale si ripaga da sé, grazie a un atteso aumento del 2% di Pil.

L’aumento del Pil è collegato all’aumento degli internauti (dovrebbero arrivare a 45 milioni di abitanti), alla fornitura di banda larga (passare dal 14 al 54% come in Europa) e all’uso dei servizi di e-gov.

Questi ultimi, pur se nel 2011 hanno fatto salire l’Italia sul podio dei servizi pubblici online (99% su 82% media UE) presentano ancora diversi limiti. Uno su tutti l’effettivo uso dei servizi, come nei casi Pec e ClicLavoro.

Finora ha funzionato solo ciò che è stato reso obbligatorio. Il digitale è obbligatorio solo per l’impresa, sia che faccia le dichiarazioni dei redditi anche dei cittadini, sia nel caso del certificato di malattia telematico, sia per le comunicazioni di bilancio, Inps, Inail.

Un e-gov fattivo e di massa richiede molti costi e la progressiva trasformazione della PA, nonché un suo dimagrimento economico.

Sicuramente l’aumento dell’uso dell’e-gov non garantisce l’aumento dell’e-commerce da parte dei cittadini. Lo potrebbe garantire una convenienza di prezzo e fiscale. Purtroppo oggi non ci sono né l’una né l’altra, anzi.

Lo sconto spesso ottenibile in negozio sul web non c’è. Gli sconti fatti sul web da Buffetti, per fare un esempio, sono spesso disconosciuti nelle sedi fisiche della catena. Per il fisco, qualunque oggetto in rete è software, così l’e-book ha l’Iva al 22% mentre un libro fisico gode del 4%. Senza parlare della pirateria che disincentiva da qualsiasi interesse di mercato.

Ci sono molti ambiti, dal commercio al turismo, dove si intrecciano opportunità materiali e virtuali; queste potrebbero ingigantirsi grazie al combinato disposto dei dati raccolti dalla videosorveglianza e dell’Internet delle cose, il che è prossimo ad avvenire.

L’uso del pagamento mobile via cellularesmartphone insieme alle tecnologie di prossimità e di riconoscimento digitale delle cose porterà improvvisamente cittadini e Pmi ad aderire all’e-commerce, a prescindere da tutte le altre condizioni.

Anche Francesco Caio, commissario per l’attuazione dell’Agenda digitale, ha parlato di un possibile recupero fiscale di 15 miliardi di euro, grazie alla fatturazione elettronica, alla sanità digitale, al cloud computing, all’e-procurement ed ai pagamenti elettronici. In un paese che ha perso 1,2 milioni di lavoratori dal 2007 e, nell’ultimo anno, circa mille imprese al giorno, fa sorridere che una stretta delle spese pubbliche (già in atto), di obblighi per le Pmi e la ristrutturazione dei servizi possano far fruttare più incasso fiscale. Sarà semmai minore.

Restando uguale all’attuale il sistema degli ammortizzatori sociali, dovrebbe così aumentare ulteriormente la spesa relativa che ha raggiunto negli ultimi due anni l’importo di un miliardo. Con coraggiosa sincerità Parisi sul tema non si è tirato indietro, chiedendo a chiare lettere una liberalizzazione da lacci e lacciuoli del mercato del lavoro dalla filiera digitale.

Il premier Letta ha ribadito queste parole, anche per rendersi più accetto nel sostegno all’agenda digitale europea della commissaria Kroes. In realtà Confindustria, adattandosi al contesto, punta almeno e soltanto alla fornitura di servizi digitali per la PA, essendole preclusa qualunque altra sfida nel settore, in presenza dell’occupazione stabile da parte dei grandi monopoli mondiali di quasi tutti i segmenti della filiera digitale e della comunicazione.

L’AG europea, assieme al pacchetto di norme riformatrici delle Telecomunicazioni, che Letta è corso a sostenere, in grande solitudine, non è centrata come in Italia sulla PA. È basata sul mercato privato, a partire dal famoso mercato unico Tlc e quindi sulla forza delle compagnie di telecomunicazioni che devono diventare capaci di offrire servizi (tra cui e-gov, e-commerce, banda larga) a tutto il continente, ed in prospettiva al mondo. Si tratta di una prospettiva inconcepibile per il Belpaese dove le Telco devono vendere a prezzi sempre inferiori, perdono sempre più ricavi e sono tutte straniere.

Solo una fusione pesata tra le grandi Telco europee continentali (e tra i loro debiti) salverebbe insieme le prospettive digitali italiane e le possibilità europee di competere con i giganti digitali del mondo. Oggettivamente a Confindustria Digitale non si può chiedere tanto, avendoci pensato a farlo l’ETNO (European Telecommunications Network Operators’ Association) a livello confindustriale europeo. Politica e sindacato, strettamente sulla difensiva, attendono gli eventi, sperando non siano i più terribili. E fanno finta nel frattempo di credere che l’Agenda Digitale italiana sia la stessa di quella europea.

di Giuseppe Mele