Davide Cappelli – Developer

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Quasi quarantenne, negli ultimi vent’anni ha lavorato per un bel po’ di imprese del Nord Italia ed anche per aziende estere, salvo coniugare queste attività con quella di formatore IT in uno dei vari E.N.F.A.P. (di emanazione U.I.L.) regionali.

Con un’educazione aziendalistica ed una formazione in Psicologia Industriale e del Lavoro, nonché un’istruzione classica, ha scelto il Web più per passione che per le opportunità che potevano dischiuderglisi.

Cura uno dei pochi blog infoscientifici sul Telelavoro e la collaborazione online nella blogosfera italiana.

È così nerd che dopo aver rippato una canzone la taglia e la ri-equalizza in base al proprio orecchio, probabilmente perché insoddisfatto del lavoro già fatto. È, altresì, così infodipendente che salta fra i 10-20 tab aperti in ciascun browser avviato, di norma non meno di 2 contemporanemente (a seconda della RAM disponibile).

Tende — lo si noterà da qui in avanti — a essere piuttosto logorroico, forse a causa delle migliaia di ore di docenza erogate sin dai tempi in cui, non ancora laureato, fu reclutato dalla Università degli Studi di Udine per tenere dei seminari al Polo di Gorizia.
L’ultimo social post?
Un post a dir la verità assai lungo, di stampo socio-economico-giuridico, intitolato “1+8 motivi per cui il Jobs Act farà più male che bene al Paese“. In dirittura di arrivo, però, ce n’è un altro: sulle carenze del Jobs Act in termini di agevolazione fiscale del Brain Draining Telelavorativo (committenti esteri che impegnano professionisti telelavoranti dall’Italia) ed in genere sulla decontribuzione/defiscalizzazione degli autonomi.

L’ultimo video che hai visto su Youtube?
Appassionato dallo spot del cagnolino che fa stretching durante la pausa-carburante ne ho citato la colonna sonora: un video sottotitolato di “Sixteen Tons” cantata dai Platters — «Saint Peter Don’t You Call Me / ‘Cause I Can’t Go / I Owe My Soul To The Company Store.» — nel suddetto post.

Mac, Windows o Linux?
Oramai ho smanettato su tutte le versioni di Windows dalla 3.x in poi, comprese molte di quelle per server. Ovviamente uso anche Linux, anche se i puristi non considerano tale né Red Hat né Fedora, sia in locale che da remoto (SUSE/OpenSUSE, Slackware, Debian, etc.).

Per server Mac ho persino avuto l’ardire di programmare (ODBMS) per un (breve) periodo; ora mi limito ad usare MacOSx e iOS (iPad ed iPhone). Vivo, praticamente, con un phablet Android e sono uno dei pochi che può fregiarsi del fatto di aver lavorato persino su un netbook con lo stesso sistema operativo. Mi mancano ancora un ChromeBook e qualcosa su cui giri FirefoxOS.

L’ultimo acquisto online?
L’aggiunta, all’abbonamento di Office365, di Microsoft Visio e Microsoft Project. Anche perché, fatta eccezione per Microsoft Access e soprattutto Microsoft Outlook, preferisco di gran lunga Libre Office o ancor meglio Google Apps, e uso le classiche applicazioni di Microsoft Office solo per garantire la compatibilità con chi usa solo quest’ultimo.

Un libro che ha segnato la tua vita?
Usability Engineering” di Jakob Nielsen: è grazie ai primi testi letti sull’Usabilità del Software e nello specifico delle interfacce Web che ho potuto coniugare la mia formazione accademica in Psicologia Cognitiva con le mia pratica professionale, diventando così uno dei primi Usability Specialist italiani del settore Web, oramai (più di) tre lustri fa.

Qual è stato il progetto lavorativo che più ti ha segnato?
Senz’ombra di dubbio la docenza in corsi di “Informatica” con disabili: già anni fa, quale esperto pure di tecnologie e metodologie supportive al Telelavoro, ho avuto modo di lavorare in due annualità del modulo dedicato al Telelavoro, appunto, dei corsi attivati presso la UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) di Trieste, mentre proprio adesso, quale formatore in forze all’ENFAP FVG, sto completando i miei interventi nel corso di “Banche Dati” (RDBMS) presso l’Istituto Regionale per Ciechi Rittmeyer, sempre di Trieste.

Non c’è nulla di più «segnante», per un profilo eclettico come il mio, a cavallo tra Informatica e Psicologia, dell’osservazione ecologica delle prestazioni differenziali di soggetti con diverse abilità sensoriali o motorie, specie se al contempo c’è l’opportunità di rendersi utili a questi ultimi, anche e soprattutto in una prospettiva di collocamento lavorativo-professionale.

Quando hai deciso di diventare quello che sei?
Sono un residuato della first wave del Web in Italia, per intendersi dei tempi di Inferentia, Etnøteam, e.Biscom, e-Tree, Iris Technologies, etc. — tutte aziende per cui, peraltro, direttamente o meno, ho avuto modo di lavorare — quando, aldilà dei «Titoli str..nzi da New Economy» (generatore casuale di job titles dedicati dell’epoca), la specializzazione non era ancora netta quanto oggi e tanto maggiore era la versatilitàorizzontale o verticale che fosse! — del singolo indviduo tanto maggiore era pure l’opportunità d’essere spesi in progetti e mansioni differenti.

Sono stato — e credo di esserlo tuttora, stante che non ho mai smesso — Web Designer, Human Interaction Designer, Usability Specialist, Web Master, Web Developer, Database Designer, Project Manager, Project Leader, Web Manager, Business Developer, etc.; mi sono occupato di Integration così come della redazione di documenti tecnici, di formazione/addestramento on-site così come della progettazione e/od erogazione di corsi tradizionali d’aula, di Consulenza Pura così come di Comunicazione (non solo social!) e curo diversi blog, dalle tematiche più diverse (Telelavoro, Politica, Web).

A parte la Grafica, sulla quale riconosco tutta la mia inidoneità, se nel prefisso o nel suffisso del ruolo c’è la parola “Web” non solo penso di aver fatto di tutto ma, soprattutto, continuo ad andarne fiero: non credo, infatti, nella specializzazione quando questa è eccessiva, perché impedisce quell’approccio olistico che, se non la mia fortuna, di sicuro ha rappresentato e continua a rappresentare il tratto distintivo del mio modus operandi.

Nella tua carriera, ha contato più lo studio (da autodidatta o scolastico-professionale) o l’esperienza pratica?
Una premessa, valida a livello globale: l’obsolescenza delle materie trattate da chi fa i nostri lavori è tale che sono assolutamenti imprescindibili sia il costante aggiornamento, formale od informale che sia, che la rielaborazione delle competenze pregresse, tant’è che non meno del 15-25% del tempo a disposizione in quello che chiamiamo lavoro — non faccio che ripetere quanto sostengo in classe, e citando fonti ben più autorevoli della mia! — dovrebbe esser esplicitamente consacrato alle suddette attività.

Più localmente, l’Italia sconta un gap culturale con il resto del mondo per cui metodologie e tecnologie, nonostante tutto, talvolta attecchiscono in questo paese con un ritardo di 18-24 mesi, nei quali l’«esperienza pratica», da sola, così orientata al brevissimo od al massimo al breve periodo ed alla soddisfazione delle pressioni — ad esempio da parte dei clienti — di oggi, non ci consentirebbe di sondare tempestivamente il terreno su cui si giocheranno quelle di domani.

Compatibilimente con il tempo effettivamente a mia disposizione ho sempre agito tenendo in profonda considerazione i due driver appena ricordati.

Il primo colloquio non si scorda mai: hai qualche curiosità da raccontare?
Ho fatto tanti colloqui di lavoro — tant’è che penso di scriverci un libro, un dì —, soprattutto quando già occupato, che invero il primo proprio non me lo ricordo più.

Posso raccontare del primo colloquio importante, ancora nel secolo scorso, per entrare in e-Tree: pensavo a qualcosa di abbastanza breve ed invece mi sono ritrovato a parlare quasi tutto il giorno con il patron, approfondendo una delle early version, che egli aveva in anteprima, di “Usabilità Web” di Michele Visciola, il primo testo in italiano sul tema.

Per fortuna a Treviso ero andato in auto, altrimenti chissà quando avrei potuto prendere un treno per tornare a casa, magari il giorno dopo.

Hai avuto durante la tua carriera professionale un incontro particolare?
Un rapporto — piuttosto che un singolo incontro — mi ha segnato, facendomi capire, ed una volta per tutte, che a un ruolo dirigenziale non corrisponde, per forza, una coerente “ragionevolezza”: per diverso tempo ho subito abusi di vario tipo, ai quali ho risposto come potevo, anche sviluppando un minimo di competenze giuslavoristiche.

Mi sarò anche beccato cinque provvedimenti disciplinari, uno dei quali persino per essermi trattenuto oltre (10 minuti) l’orario lavorativo, e sarò pure andato in soccombenza in un ricorso giudiziale per demansionamento e dequalificazione, ma lui fu costretto ad affrontare tre — quattro forse, non ricordo — indagini da parte della Procura della Repubblica, scaturite da altrettanti esposti (scritti di mio pugno), e con un’altra da parte del locale Ispettorato del Lavoro, sempre su mia segnalazione! In quel frangente ebbi anche l’occasione di conoscere il locale Sportello Mobbing della U.I.L., che mi offrì proprio il supporto di cui avevo bisogno, tant’è che ancora oggi collaboro con loro, rigorosamente pro bono (nonostante i vari tentativi di pagarmi ;-).

E un’intuizione vincente?
Oltre alla succitata sinergia fra Psicologia e Web c’è sicuramente quella riguardo la Progettazione di Database Relazionali: constatato quanto spesso essa sia portata avanti in maniera eccessivamente procedurale, con poca o nessuna attenzione per le informazioni in sé, traducendo pedissequamente su sistema informatico le prassi dei committenti ma senza alcuna analisi a monte — soprattutto di tipo organizzativo e produttivo —, già da tempo mi impegno, con mia estrema soddisfazione, persino intellettuale, per clienti e soprattutto per clienti di clienti, nel colmare tali lacune, che in qualsiasi tipo di Sistema Informativo Aziendale possono portare ad esiziali conseguenze.

Cosa consigli ai giovani che vogliono diventare come te?
Se non proprio un dinosauro di sicuro faccio parte di una specie in via di estinzione, naturalmente. A coloro che, invece, volessero affrontare questo tipo di professioni, in generale, posso solo consigliare di non cominciare neppure se non ampiamente convinti e consci di ciò che esse comportano: studio costante — e non concentrato soltanto nel raggiungimento del titolo di studio e poi ciao ciao libri —, orario e settimana lavorativa molto casual e competizione agguerrita.

Per fare questo tipo di lavoro è imprescindibile amarlo così come è, sapendosi pure divertire per queste sue peculiarità. Ormai sono troppo vecchio ed usurato per certe cose, ma fino in punto di morte mi ricorderò, con tanto affetto, di quando, con alcuni colleghi, andavamo a prendere caffé & brioche prima di tornare in ufficio, salutare gli altri colleghi attaccanti turno e tornare a casa, esausti ma soddisfatti, anche della brioche appena sfornata dalla pasticceria.

Internet ha cambiato il mondo del lavoro in Italia. Come?
Ancora troppo poco: da una parte le aziende e dall’altra i lavoratori sono ancora affezionati a vecchie prassi («si è sempre fatto così») e vecchi contesti, in primis riguardo all’accesso alle informazioni, in base ai quali sia ancora sostenibile non innovare.

L’anno scorso, per esempio, ho partecipato ad una conferenza sul Cloud in cui, con la consueta autoreferenzialità del caso, i relatori hanno discusso, di fatto, di Internet, della stessa cosa di cui disponiamo da quasi vent’anni, come se si trattasse di una novità assoluta, fra gli applausi convinti degli astanti, fra i quali, stante l’istituzionalissima sede, tanti imprenditori. C’è molta gente che, analogamente, ha accolto con soddifazione l’innovazione renziana di tentare di vendere le auto blu su eBay, dimenticandosi che la medesima procedura è impiegata da semianalfabeti in tutto il mondo per farsi il proprio mercatino dell’usato.

Questo è il problema italiano: salutare come rivoluzionario un qualsiasi saltino di qualità rispetto al passato, ignorando che altrove, dovunque, l’asticella viene costantemente spostata più in alto; una cosa è riconoscere lo sforzo che è stato profuso, un’altra accontentarsene, un’altra ancora capire quando ciò sia del tutto inadeguato.

Serve un sindacato dei Networkers? Se sì, come te lo immagini?
Certamente sì, in primo luogo perché le peculiarità di questi lavori non sono nemmeno comprensibili per un sindacalista classico, né per buona parte della rete di supporto sindacale, giuridico incluso: io stesso, ancorché molti anni fa, rivoltomi al Sindacato per una questione di retribuzioni (fatturate) non pagate, alla fine sono stato costretto a risolvere la cosa autonomamente; questo perché il legale, da un lato, ha trovato «troppo tecnica» la memoria che avevo scritto, mentre il sindacalista, dall’altro, ha continuato imperterrito a puntare sul riconoscimento della subordinazione.

Ed anche in quest’ultimo caso, cioè del lavoro dipendente, è difficile non preferire un sindacalista specializzato in questi tipi di mansione, in grado di capirne appieno le (enormi) differenze con gli altri, svolti magari dai dirimpettai di ufficio.

Fondamentale, a mio avviso, sarebbe un sindacato in cui non vi sia distinzione alcuna fra subordinati e non e che, anzi, favorisca un’indifferenziata socializzazione, persino nelle competenze, magari proponendosi come fautore di percorsi di aggiornamento professionale ad hoc.

Un sindacato che trascenda dalle sole norme giuslavoristiche per abbracciare anche quelle, più generali, di rango civilistico-contrattuale. Un sindacato che promuova l’istituzionalizzazione non tanto dei profili quanto delle competenze specifiche caratterizzanti le professionalità. Un sindacato, infine, che comprenda appieno la propria trasversalità rispetto ai diversi settori economici e ne faccia l’uso più proficuo, per tutti.

È da tempo che seguo il Sindacato NetWorkers e mi pare si muova proprio in questo senso.

Descrivi la tua professione in modo chiaro e diretto in modo che anche mia nonna possa capirla.
Sulla questione sono — ahimè — molto allenato.! In sintesi: quelli come me mettono in grado anche quelli come lei di usare al meglio quella cosa li. E più non dimandare.

L’organizzazione ‘classica’ del lavoro (orari rigidi e cartellino da timbrare) ha senso per un networker?
Solo nel caso vi siano turni di presidio specifici, come nel caso dell’assistenza internazionale sui Sistemi IT.

In tutti gli altri casi — non solo i networker ma la gran parte dei lavoratori che hanno un computer come principale strumento di lavoro — vi deve essere sia il Flextime (flessibilità nella struttura dell’orario di lavoro, anche sul medio periodo) che il Flexplace (flessibilità di poter svolgere le proprie attività, al caso, da qualunque luogo) — termini, tanto per intenderci, coniati lustri fa e fatti propri dalle aziende di tutto il mondo, fatta eccezione per l’Italia.

Quest’ultima non solo si ostina a non introdurre sistemi di valutazione della prestazione, mediante i quali sarebbe possibile rilevare la produttività individuale, ma, in carenza di siffatti dati, non riesce ad emanciparsi dalla logica della supervisione diretta, ossia in loco, della forza lavoro né dalla sinallagmatica correlazione tra ore di presenza e retribuzione.

Un tanto premesso è assolutamente d’obbligo ribadire che altrove, nonostante tutta questa flessiilità, il bilanciamento fra lavoro e vità privata (c.d. Work/Life Balance) è assai più favorevole alla seconda di quanto sia rilevabile in Italia, dati statistico-economici alla mano.

Quanti sono i tuoi amici sui social network, quanti di questi conosci davvero e quanti frequenti anche “off-line”?
Circa 600 amicizie su Facebook ed altrettanti contatti su Linkedin: in generale non sovrapponibili fra loro perché mentre fra quelle di Facebook molte persone sono frequentate anche dal vivo, fra quelle che ho accumulato su Linkedin vi sono moltissime con le quali intrattengo rapporti squisitamente di natura professionale e/od intellettuale. In entrambi i casi, tuttavia, i confronti online sono frequenti: siamo tutti molto prolifici — postiamo opinioni, link e partecipiamo a gruppi, etc.— e da un nonnulla possono scaturire conversazioni interminabili.

Prima di incontrare qualcuno che non conosci fai una ricerca su Google?
Per principio cerco di informarmi a priori, senonché un leit-motiv delle mio lavoro è il passaparola fra persone che già si conoscono, laonde per cui non è proprio così frequente, per me, incontrare degli assoluti sconosciuti: quasi sempre, infatti, posso giocare d’ulteriore anticipo chiedendo pure in giro..
di Mario Grasso