Quando il virtuale crea realtà

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Quando il virtuale crea realtà

Nel suo film “La rosa Purpurea del Cairo” Woody Allen racconta la storia, ambientata negli anni ’30, di una giovane donna sposata ad un uomo collerico che per evadere dalla realtà si rifugia nel cinema della sua città.

Sul grande schermo vede un vecchio film “La rosa purpurea del Cairo”, e rimane talmente affascinata da rivederlo più volte fino al punto che il suo personaggio preferito, l’esploratore, accortosi della presenza costante della donna esce materialmente dallo schermo e le propone di fuggire con lui…

Lei accetta, i due fuggono insieme, si innamorano e si divertono. Intanto però i protagonisti del film si trovano costretti ad aspettare il ritorno del personaggio per poter proseguire con la trama della pellicola…

Una intuizione originale, che ha anticipato i tempi (il film era dell’85), con cui Allen invitava a riflettere sul labile confine tra sogno e realtà, tra virtuale e reale, una provocazione tanto più significativa visto che arrivava da un regista la cui stessa vita sembra un film.

La Realtà virtuale guadagna terreno ogni giorno ed ha avuto notevole peso al festival del Cinema di Venezia – diretto da Alberto Barbera – che ha ospitato la prima edizione di Biennale College Cinema Virtual Reality, una sezione ad hoc creata per dare spazio a nuovi autori nell’ambito digitale.

L’evoluzione tecnologica prevede nuove forme di narrazione e il Mondo del Cinema è pronto a proporle.

Quella tra “reale” e “virtuale”, però, è una contrapposizione sempre più artificiosa.

L’essere umano ha sempre sentito il bisogno di rappresentare ciò che viveva e ha sempre usato la rappresentazione -a partire dai primi graffiti nelle rocce fino alle moderne opere digitali- per raccontare e spiegare il mondo. E quando si racconta fantasia e realtà, non di rado, si mescolano.

Molti pensatori hanno messo in discussione la possibilità di una verità “oggettiva” unica, sostenendo invece che la realtà dipende dalle nostre percezioni e da come reagiamo alle stesse.

Personaggi del calibro di Heidegger, Wittgenstein, del biologo Marturana, del linguista Rafael Echeverria, dello psicologo Paul Watzlawick concordavano su una idea di fondo secondo la quale, in estrema sintesi, la realtà non è data tanto dalle circostanze esterne ma dipende soprattutto da come NOI rispondiamo alle stesse, con parole e azioni.

La realtà che percepiamo è “filtrata” “costruita” dalle nostre informazioni, dalle nostre esperienze, dai nostri valori, dalla nostra storia.

Siamo noi, almeno in parte, i costruttori della nostra realtà. E così anche al cinema dove il confine tra realtà e finzione è labile e si produce realtà raccontando storie.

La filosofia indiana c’era arrivata prima. Leggete la vecchia novella dell’elefante.

“C’erano una volta sei ‘saggi’, che però erano ciechi. In città fu condotto un elefante ed essi vollero conoscerlo, perché non ne avevano mai visto uno. Essendo ciechi decisero di conoscerlo toccandolo.

Il primo toccò l’orecchio grande e piatto e disse: “è come un ventaglio”. Un altro toccò le zampe e disse: “è come un albero”. Il terzo, toccando la coda, disse: “sbagliate entrambi: è come una fune”. Il quarto toccò le zanne e disse: “macché, è come una lancia”. Il quinto, toccando il fianco dell’animale disse: “ma no! È una muraglia”. L’ultimo, afferrata la proboscide, disse: “avete tutti torto, è come un serpente”.

I sei saggi ciechi si accapigliarono per un’ora gridando: “Ventaglio! Albero! Fune! Lancia! Muraglia! Serpente!” E non riuscirono a capire come è fatto un elefante!