Osservatorio sulla gig economy in Italia: i risultati del 2019

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Osservatorio sulla gig economy in Italia: i risultati del 2019

Dopo due anni pubblichiamo un nuovo report del nostro osservatorio sulla gig economy in Italia.

Molti risultati confermano le risposte del 2017 ma non manca qualche sorpresa.

Ecco i numeri della nostra indagine qualitativa sulle condizioni di lavoro dei lavoratori italiani delle piattaforme digitali.

L’identikit dei gig worker italiani

I gig worker italiani sono principalmente uomini (73,6%) e sono perlopiù giovani (18-34 anni, 53%) ma con una quota in crescita di over 50 (16%) rispetto ai risultati del 2017. Cresce, seppur di poco la fascia di età 35-50 anni: rappresentano il 31% dei rispondenti. Lavorano principalmente al Nord (59%) e al Sud (22%). Quest’ultimo è un dato che capovolge il risultato del 2017, quando il Centro rappresentava il 33% (oggi è al 18%) e si piazzava al secondo posto.

La città con più intervistati è Milano, segue Roma. Mentre per le altre città degli intervistati si va da Trento fino a Catania, passando, solo per citare le principali, da Bologna, Firenze, Catanzaro, Foggia e Sassari.

La licenza media superiore (32%) è il titolo di studio più frequente tra gli intervistati. Segue di poco la laurea di primo livello (30%) e quella di secondo livello (20%) che nel 2017 era invece il titolo di studio più rappresentativo col 31%. Al terzo posto troviamo il master o i corsi post-laurea (10%). In coda la licenza media inferiore (6%) e la scuola elementare (2%).

Le esperienze di lavoro passate dei gig worker

In aggiunta ai lavori del precedente report, fanno parte della lista anche il sociologo, il lavoro nei call center, il pubblicitario, la babysitter, lo stock trader, il magazziniere, il cameriere, l’operatore socio sanitario, il responsabile marketing e la copywriter. Come si può facilmente intendere il lavoro su piattaforme digitali attira persone dalle qualifiche e dalle esperienze lavorative più disparate.

Le piattaforme di lavoro online utilizzate

Se da un lato si confermano le piattaforme del food delivery (da Deliveroo a Glovo, da Uber Eats alla scomparsa Foodora, passando per Just Eat), aumentano le presenze dei lavoratori del cosiddetto crowd working: sono diverse le esperienze di lavoro svolte su ClixSense, Rainforest, Neobux, Odesk, Melascrivi giusto per citarne alcuni. È interessante anche la citazione delle piattaforme digitali italiane Be My Eye e Joebee.

Il lavoro sulle piattaforme digitali

Rispetto al 2017, il quadro del lavoro svolto sulle piattaforme è più complesso. Mentre aumenta la percentuale di chi lavora attualmente su una o più piattaforme (passando dal 25% di due anni fa al 37%), diminuisce in maniera significativa la presenza di persone che hanno lavorato almeno una volta nell’ultimo anno tramite le piattaforme digitali (si va dal 60% del 2017 al 33% di oggi).

Il suddetto calo viene suddiviso in linea generale tra chi ha lavorato almeno una volta a settimana (3,7%), chi almeno una volta al mese (7,4%), chi almeno una volta negli ultimi due anni (7,4%) e una percentuale interessante è data da coloro che vorrebbero invece lavorare sulle piattaforme digitali (11%).

Tra le attività svolte troviamo ovviamente la consegna a domicilio, ma anche lo sviluppo web, le traduzioni, la compilazione di sondaggi online, attività di grafica, data entry, la visualizzazione di annunci dietro compenso e la navigazione online, ricerca di informazioni online e il confronto di informazioni e altri micro compiti (task) da crowd working.

Orari e retribuzione della gig economy in Italia

Anche in questo caso troviamo delle variazioni rispetto ai dati del 2017: si abbassa la percentuale di persone che lavora fino a 2 ore al giorno (passando dal 50% di due anni fa al 30,9%) e aumentano i rispondenti che dichiarano di lavorare da 2 a 4 ore al giorno (29,1%) e soprattutto quelli che lavorano più di 4 ore al giorno (dal 25% del 2017 al 40% di quest’anno).

Rimane invece in pratica invariata la percentuale di intervistati che guadagnano fino a 5mila euro all’anno (75% rispetto al 74% del 2017). Si frammenta invece la percentuale di chi guadagna più di 5mila euro annui: il 9,6% guadagna da 5 a 10mila euro annui; il 7,7% guadagna da 10mila a 15mila euro all’anno; la stessa percentuale vale per chi va oltre i 15mila euro annui. Nel 2017 quest’ultima cifra era più che raddoppiata col 16%.

Questo conferma ancora di più, rispetto al 2017, la dinamica del “winner takes all” della gig economy: ovvero da una parte i tanti lavoratori che guadagnano poco e dall’altro le poche “star” che riescono a fare dei guadagni importanti.

Tra i commenti sulle retribuzioni del lavoro su piattaforme digitali, come nel rapporto precedente, ci piace segnalarne alcuni: si va dal fattorino di Glovo che commenta con un secco “negativo su ogni aspetto!” o “non dignitosa” al sondaggista online che ha “guadagni esigui ma utili per arrotondare”; dal rider di Uber Eats che “non si può lamentare” al traduttore e copywriter che la ritiene “Soddisfacente. Esistono lavori con qualsiasi tipologia di budget, ma con costanza e professionalità si può arrivare a guadagnare bene”.

I contratti applicati nella gig economy in Italia

Ovviamente continua la mancanza di applicazione di un contratto collettivo nazionale per questo tipo di lavori. Sono presenti le partite Iva, i co.co.co., le prestazioni occasionali, il pagamento a cottimo o nessun tipo di contratto.

Le condizioni di lavoro sulle piattaforme online

Ci piace innanzitutto riportare questo commento approfondito di una giovane esperta di grafica digitale del Nord Italia che fa un quadro preciso sulle condizioni di lavoro di una grossa piattaforma digitale come Freelancer: “Faccio l’esempio di Freelancer che è quello che ho usato di più. Per mostrare di essere professionali e competenti bisogna guadagnare dei badge/bandierine che dimostrano i livelli di competenza, per acquisirli si passano degli esami. Per poter essere scelti o applicare ai contratti bisogna avere dei requisiti minimi, questo vuol dire che il primo mese lo si passa ad acquisire badge e bandierine. Si inizia accettando i lavori che nessuno vuole per poter avere feedback positivi e aumentare il proprio rating. Passa un altro mese a lavorare ore e ore praticamente a gratis. Si scopre poi che la concorrenza è allucinante nei lavori vagamente più accettabili, e si gioca nello stesso campo di persone che vivono in posti dove 5 dollari rappresentano una buona paga. Questo vuol dire giocare al ribasso continuo, a favore solo del datore di lavoro. Impossibile da gestire nel mio settore. So che in altri settori più tecnici e specialistici (traduzioni, programmazione) la situazione è un po’ migliore. Ho abbandonato l’idea di provare a lavorare su queste piattaforme, anche perché si spende davvero troppo tempo a cercare l’offerta giusta, vincere l’asta e mettersi d’accordo con chi ha fatto la richiesta.  Con sempre il rischio che la piattaforma chiuda l’account e i crediti accumulati si perdano”.

Rispetto invece al mondo del food delivery (o dell’all-delivery come nel caso di Glovo), troviamo rispetto ai risultati del 2017 una situazione un po’ più contrastante sulle condizioni di lavoro dei rider.

Da un lato, infatti, c’è chi, come un giovane rider Deliveroo di Milano, commenta che “Considerando il numero di lavoratori funziona bene… a volte bug o algoritmi creano disagi; il problema n° 1 è che Deliveroo può variare il compenso ogni mese, perciò, come è facile immaginare, ogni mese il pagamento per consegna diminuisce… in pratica guadagno 80 centesimi a consegna in meno rispetto a neanche un anno fa… questo è grave e continueranno a diminuire la paga finché non ci saranno regole precise” o un giovane fattorino straniero di Verona che, lavorando per più piattaforme (Foodora, Deliveroo e Just Eat) scrive che “La mia esperienza è positiva poiché fai esperienza”.

Dall’altro invece non mancano i commenti negativi, come quella di un giovane rider di Deliveroo del Sud Italia: “Le condizioni di lavoro sono precarie a causa dell’incertezza su cui si basa il meccanismo delle statistiche e del ranking, infatti nell’ultimo periodo ho perso tante ore tolte dall’azienda nonostante avessi lavorato tutte le ore e nelle fasce considerate per le statistiche”. O ancora, il commento di una giovane partita Iva siciliana di Glovo che le condizioni di lavoro sono “davvero brutte negative in ogni aspetto sia retributivo che per condizioni di vita”.

C’è chi traccia, come un altro giovane rider milanese di Glovo e Deliveroo, un quadro ancora più preciso: “Al momento lavoro prettamente per Glovo, l’orario puoi deciderlo tu in base alle tue esigenze, ma fino a 48 ore prima non puoi annullare il turno anzi, si dovrebbe mandare una mail a Glovo per togliere gli slot ore, e quasi mai rispondono. Può succedere che durante un turno hai un imprevisto (guasto al mezzo, furto bici, ecc…), e quando contatti il supporto ti dicono di scrivere una mail quando possono farlo anche loro. E fanno dei grandi casini, ad esempio mi hanno dato una consegna in ritardo di 45 minuti, alla mia richiesta di motivazioni hanno risposto che un collega ha avuto un incidente, senza avere avuto alcun tipo di avviso da parte loro, meno male che una ragazza ha dato dimostrazione di professionalità e mi ha annullato il turno pagandomelo, spiegandomi poi che il collega ha subito il furto della bicicletta con le pizze.”

Le garanzie del lavoro su piattaforma digitale

Sulle garanzie offerte da questo tipo di lavoro, il quadro resta praticamente immutato rispetto al 2017, cioè praticamente nessuna, salvo la flessibilità oraria (se vogliamo intenderla come una garanzia, ndr) e, in alcuni casi, l’assicurazione contro gli infortuni secondo alcuni intervistati.

Sul versante delle garanzie che i lavoratori della gig economy vorrebbero per il loro lavoro, troviamo due fronti: uno, che in generale fa capo alle risposte dei crowd workers, che non richiede altri diritti o non sa quali potrebbero essere; l’altro, che fa capo ai rider delle consegne a domicilio, che ruota attorno a una retribuzione dignitosa, a un’assicurazione contro gli infortuni, all’indennità di malattia e ai contributi previdenziali.

Perché si cerca lavoro sulle piattaforme online?

Anche nel 2019 le motivazioni sono pressoché le stesse del precedente rapporto di due anni fa: mancanza di altre opportunità di lavoro, per arrotondare e per una maggiore flessibilità.

Da segnalare alcune risposte più specifiche: “personalmente l’ho fatto perché nessuna garanzia mi era offerta nemmeno in azienda, e non trovando soluzioni migliori, almeno risparmiavo il costo della benzina e mangiavo a casa, gestendo da me gli orari… di fatto è stata l’ultima spiaggia” e “perché sono troppo vecchio per fare altri lavori, ho 42 anni”, “perché ritengo possa essere (se regolamentato) un ottimo strumento di lavoro”, “Perché da traduttrice non potevo fare altrimenti”.

Soddisfazione dei gig workers ancora in bianco e nero

Come nel 2017, anche adesso il livello di soddisfazione è quasi diviso a metà: da una parte abbiamo il 23,9% di rispondenti per niente soddisfatti del lavoro su piattaforme digitali e il 19,6% che sono invece poco soddisfatti; dall’altra parte invece abbiamo il 43,5% che si dichiara abbastanza soddisfatto e in leggero aumento rispetto al 2017 (dall’8% al 13%) è molto soddisfatto.

Chi può rappresentare i lavoratori della gig economy?

Anche nel 2019 si conferma una divisione a metà della rappresentanza dei lavoratori delle piattaforme digitali. Il 43,5% infatti risponde che nessuno può avere un ruolo di rappresentanza per questo tipo di lavoro. Mentre il sindacato al 32,6% (in aumento rispetto al 2017 quando la percentuale era del 25%) è la prima forma di organizzazione che secondo i rispondenti può rappresentarli. Con l’8,7% l’associazione di professionisti non organizzata in ordine o collegi e il 4,3% di un Ordine/Albo dei professionisti si arriva a controbilanciare (e a superare, seppur di poco) il suddetto “nessuno di questi”.

Interessanti alcune risposte dei singoli lavoratori: da chi preferirebbe che la piattaforma stessa avesse un’etica nella gestione dei rapporti di lavoro, a chi pensa che la piattaforma stessa (il forum guadagna.net, nello specifico) possa rappresentare gli interessi di chi ci lavora.

Chi ha scelto il sindacato pensa che “avere un referente che possa portare richieste alle aziende come Deliveroo sia molto più efficace che fare solo proteste o appoggiarsi alle altre opzioni”, che è “forse l’unico che si avvicina, anche se non siamo lavoratori riconosciuti” o che “sono gli unici che si stanno interessando e soprattutto che storicamente possono aiutare a risolvere i problemi di ingiustizie […] servirebbe un nuovo tipo di “sindacato” o “associazione dei lavoratori” capace di agire ovunque e creare regole comuni”.

Tuttavia c’è anche chi, come una crowd workers, ha risposto così: “Non sono sicura che questo tipo di lavoro online sia tutelabile come vorremmo”.

Pareri contrastanti anche tra gli “attivi” della gig economy, cioè chi ha svolto attività di qualsiasi tipo sulle opportunità e i limiti della gig economy. Tra i rider di Milano c’è chi “ha creato e mantenuto un punto di ritrovo dove ritrovarsi e scambiarsi pareri e informazioni” o, al contrario, come un lavoratore di ClixSense risponde “ci stavo pensando, ma mi sembra solo una perdita di tempo”.

Osservatorio sulla gig economy in Italia: indicazioni metodologiche

Come per il rapporto precedente, teniamo a specificare che questi dati non hanno carattere scientifico, dato il numero esiguo (55 rispondenti al 13 settembre 2019) di chi ha contribuito con la propria testimonianza a raccontare le proprie condizioni di lavoro sulle piattaforme digitali.

La difficoltà di intercettare questi lavoratori (soprattutto i crowd workers, nonostante l’impegno da parte nostra nel trovare dei “punti di ritrovo” online forniti solo da pochissime piattaforme) resta uno dei limiti per costruire un racconto “dal basso” della gig economy in Italia.

Tuttavia il taglio qualitativo del nostro osservatorio sulla gig economy in Italia resta un’iniziativa valida per raccogliere contributi originali e spontanei sullo stato di salute della gig economy in Italia.

L’obiettivo è di raccogliere quanti più punti di vista possibili sui bisogni dei lavoratori di piattaforma digitale e provare a rappresentarli con lo scopo di garantire un lavoro dignitoso.

Ecco anche la nostra proposta per regolare la gig economy in Italia.

L’indagine resterà sempre online come osservatorio sulla gig economy in Italia.

Chi vuole collaborare per ampliare questo lavoro di ricerca, può inviarci un’email a info@sindacato-networkers.it oppure contattarci tramite i nostri canali social Facebook e Twitter.

Foto: “Exploitation as Freedom” by Billie Grace Ward, used under CC BY 4.0 / Ritagliata rispetto all’originale

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