Talenti nascosti: una novella per riconoscerli

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MILANO – È possibile aiutare le persone a costruire il proprio destino? A progettarne il domani?

La parabola dei talenti narrata nel vangelo secondo Matteo ci insegna che è possibile, che l’uomo alla fine diventa ciò che vuole, che bisogna valorizzare le capacità del singolo.

Declinata in termini lavorativi la famosa parabola dà molti buoni spunti di riflessione.

“Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì”.

Il datore di lavoro (o chi per esso) distribuisce i suoi beni tra i suoi collaboratori. Come distribuisce questi talenti (partendo dal presupposto che sia persona onesta)?

Dovrebbe farlo sulla base delle reali capacità di ogni suo singolo collaboratore, escludendo arrivismo e le simpatie personali, guardando i fatti e conoscendo in modo approfondito le abilità di ognuno, i punti di forza e di debolezza. Solo così può distribuire bene i suoi ‘averi’ e far sì che chi ha avuto tanto ridia tanto, in termini d’investimento professionale.

“Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”.

Qui si può vedere come ogni collaboratore interpreti il messaggio del datore di lavoro secondo il suo orientamento.

C’è chi lavora con impegno e dignità, chi non vuole dare di più del dovuto, chi ha paura di impegnarsi, chi s’impegna mosso solamente dall’arrivismo.

“Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro”.

A differenza del datore di lavoro moderno, che vuole risultati immediati spesso impossibili, il ‘padrone’ della novella lascia scorrere un periodo di tempo ragionevole per verificare i risultati dei suoi collaboratori. Alla fine valuta: chi non è riuscito nel suo lavoro non merita una rinnovata fiducia.

“Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

I collaboratori presentano il loro lavoro. È interessante notare che -nella parabola almeno- il datore di lavoro non chiede a nessuno cosa abbia fatto per fare fruttare i suoi beni ma guardi solo al risultato finale. Si è fidato e quindi ora condivide il risultato con chi ha collaborato. In azienda si chiama “premio di produzione”. Entrambi i lavoratori della parabola hanno amplificato le loro capacità perché sostenuti dalla fiducia del datore di lavoro.

“Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo”.

Il resoconto del terzo collaboratore fornisce interessanti spunti di riflessione. La paura l’ha frenato impedendogli di rischiare, ha protetto solo il presente, pensando a se stesso, e prodotto solo quello che gli serve per mantenere la sua posizione. La fiducia del datore di lavoro non gli è bastata, anzi vede lo stesso come un tiranno che vuole guadagnare per sé. La domanda è: perché gli altri due -più del 50 per cento dell’impresa- vedono invece il datore con occhi diversi?

“Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse”.

Il datore di lavoro si riconosce nella sua “vision”. Il suo dovere è produrre reddito, ricchezza per ridistribuirlo a chi crede in lui e nel suo sogno imprenditoriale. Dà delle soluzioni semplici e relativamente sicure e attuabili.

“Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Le capacità personali vanno sempre messe a disposizione di tutti perché hanno un “peso”. Non esiste l’estraniarsi in modo totale da un’impresa. Per essere competitivi e avere successo bisogna dare sempre il massimo, o altri meriteranno più di noi: alla fine sarà sempre il mercato a fare la scelta e chi avrà operato bene saprà raccogliere, se non altro nelle propria serenità d’animo.

“E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

È il licenziamento in tronco. Chi non ha creduto nell’impresa e nella sua vision, chi non s’è messo in gioco alla fine perde perfino ciò che aveva. L’impresa è sempre rischio, ma anche la propria professionalità e’ a rischio: il coraggio si costruisce vincendo la paura, chi non ha paura vince.

Questa parabola ricorda che l’uomo è anche artefice del proprio destino. In chiave aziendale insegna come sia determinante che il datore di lavoro conosca bene i propri collaboratori, sappia destinare tempo e risorse per ascoltarli, capirli e valorizzare; e sappia infine collocarli nei posti più adatti a loro, in posizioni che permettano a chi ha ricevuto di dare nello stesso modo.

In un’azienda efficiente tutti dovrebbero ricevere secondo la loro reale capacità ed essere messi in grado di dispiegare al meglio le proprie potenzialità.

La parabola fornisce spunti notevoli sul tema della relazione con l’impresa. La chiave di lettura principale non è però quanti talenti abbiamo, o come dobbiamo produrre, ma quale talento siamo.

di Paolo Bianchi
formazionezero.blogspot.it