Chi sono Jarvis e Frank? Chi sono i rider, i glover, gli shopper?
Chi non ha mai avuto a che fare con la gig economy e il lavoro tramite piattaforme digitali, per la prima domanda potrebbe pensare a persone in carne e ossa ma siamo invece di fronte a codice di programmazione informatica, algoritmi si direbbe.
Nel secondo caso forse potrebbe avere qualche idea se è appassionato di motociclette, ma in realtà si confronterebbe con fattorini di consegne a domicilio.
Solo che oggi la comunicazione delle piattaforme digitali del food delivery (e non solo) ha messo in piedi un sistema di persuasione per chi lavora o vuole lavorare come fattorino atto a evitare determinati termini italiani per indorare la pillola della precarietà.
D’altronde, quando questi termini sono sdoganati dal dibattito mediatico e politico, il grosso del lavoro è fatto.
Cerchiamo di capirne di più sui meccanismi dietro le piattaforme digitali di lavoro.
Jarvis è il nome dell’algoritmo che sta alla base dell’applicazione dell’azienda Glovo; mentre Frank è il nome che Deliveroo ha dato all’algoritmo che fa girare la sua applicazione per le consegne a domicilio.
Jarvis e Frank sono ormai divenuti esempi classici di umanizzazione delle piattaforme lean, come le definisce Nick Srnicek nel libro “Capitalismo digitale”, piattaforme che (insieme a Just Eat, Uber Eats, Social Food, Supermercato24, giusto per citarne alcune) lavorano come servizi di ristorazione ma senza ristoranti, fanno consegne a domicilio senza fattorini.
O meglio, i fattorini ci sono ma sono collaboratori autonomi, così da scaricare decine di punti percentuali di costi del lavoro sulle spalle dei rider, dei glover, degli shopper.
Per capire meglio questa dinamica, prendiamo in prestito le parole del “capo” del corriere freelance Ricky durante il colloquio di lavoro nel film Sorry We missed you: “Tu non lavori per noi, tu lavori con noi”. Con tutto ciò che ne consegue, come dimostra lo splendido film di Ken Loach.
Sembrerebbe così che queste società del food delivery siano società senza patrimonio. In realtà hanno il bene più prezioso tra le mani: il software – protetto da copyright intellettuale – e l’analisi dei dati.
Le piattaforme digitali della gig economy sono strutturate in estrema sintesi così: lavoratori (e relativi costi del lavoro e sociali) delocalizzati, capitale fisso delocalizzato, costi di manutenzione delocalizzati.
L’unico impegno aziendale – fondamentale – è il controllo sulla piattaforma per avere una rendita di monopolio.
Come scrive bene Srnicek, oggi lo smartphone è diventato essenziale nei paesi in via di sviluppo (e anche in quelli occidentali, potremmo dire) per trovare lavoro nei mercati del lavoro informali.
Attenzione però: questo meccanismo non è legato solo ai rider del food delivery. Secondo il Dipartimento del Lavoro statunitense (ma ormai esistono molte indagini internazionali sul fenomeno), ci dice Srnicek, l’errato inquadramento di lavoratori subordinati come lavoratori autonomi riguarda anche altre categorie: personale dei ristoranti, baristi, lavoratori edili, idraulici, guardie giurate, solo per fare alcuni esempi.
La gig economy degli algoritmi alla fine mette online questi lavori con un livello di controllo onnipresente.
Altro aspetto interessante e importante da capire è quello finanziario. Da dove arrivano i soldi per le piattaforme digitali della gig economy?
Come ha anche affermato Gabriele De Giorgi, responsabile delle policy di Uber Eats e rappresentante del consiglio direttivo di Assodelivery, durante la conferenza finale del progetto “Don’t GIG up!” tenutasi il 21 gennaio 2020 nella sede del Cnel a Roma, le aziende del food delivery mantengono il loro business principalmente con i finanziamenti esterni.
In pratica, gli investimenti finanziari internazionali oggi cercano nuove strade per avere dei tassi di interesse alti.
Se gli investimenti immobiliari o finanziari tradizionali offrono dei tassi di interessi bassi per le eccedenze di capitale, i fondi comuni e le banche di investimento puntano sul boom tecnologico per avere dei tassi di rendimento più alti.
Tuttavia, se da un lato la redditività di queste piattaforme è ancora da provare (o come si dice negli ambienti delle aziende del food delivery: “Stanno studiando l’andamento del mercato per capire quali tutele dare ai fattorini a stabilizzazione di mercato avvenuta”), il rischio che la redditività – bassa – di queste aziende-piattaforme sia generata solo dalla rimozione dei costi e dall’abbassamento dei salari, in una “guerra tra piattaforme” volta quanto più a un possibile monopolio o “cartello”, è concreta.
Cosa si può fare per garantire tutele ai rider delle consegne a domicilio e ai lavoratori della gig economy più in generale? Una proposta pratica su cui riflettere è quella di Geremias Prassl: spostare l’attenzione del diritto (e della politica, aggiungiamo) sul fornitore di lavoro, più che sul lavoratore.
Secondo Prassl, va considerato datore di lavoro il “fornitore” che ha il potere di iniziare e concludere il rapporto di lavoro; che riceve la prestazione e i suoi frutti; che fornisce il lavoro e la retribuzione; e che gestisce il mercato all’interno e all’esterno dell’impresa. In questo modo, gran parte del lavoro di piattaforma rientrerebbe in tale definizione e garantirebbe le tutele del lavoro subordinato ai gig workers.
Che questo approccio possa essere utile per il prossimo progetto di legge sulla gig economy in Italia? Ai posteri l’ardua sentenza!
Intanto il sindacato – a tutti i livelli – si sta già interrogando e organizzando con i rider su come intervenire per rappresentare i bisogni dei lavoratori di queste nuove forme di organizzazione del lavoro tramite gli algoritmi.
Insomma, il meglio deve ancora venire.