Serve una legge sulla gig economy per tutelare i rider

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Serve una legge sulla gig economy per tutelare i rider

Si infiamma nuovamente il dibattito sui rider della gig economy, i fattorini delle consegne a domicilio.

È bastato un tweet dall’account del Ministero del Lavoro per far rinfocolare il dibattito mediatico, già caldo grazie alla recente sentenza d’appello del Tribunale di Torino su cinque ex fattorini di Foodora.

La mediatizzazione della politica, cioè la rincorsa continua al titolo di giornale, alla partecipazione nei talk show, alla diretta web sui social network da parte degli attori politici, ha reso un argomento delicato come quello delle tutele dei lavoratori un focolaio di prese di posizione parziali su un tema che invece merita approfondimento e maggiore dialogo tra le parti in questione.

Perché – a parte la mancanza di volontà da parte dei gestori delle piattaforme di trovare un accordo con le parti sociali e le istituzioni – questo è il vero limite del lavoro sulle piattaforme digitali in Italia.

Il teatrone della politica, come direbbe Filippo Ceccarelli, preferisce comparire con quei “giovani” rider sfruttati dalle holding internazionali che gestiscono le app delle consegne a domicilio al posto di affrontare il nodo del lavoro su piattaforma in maniera complessiva.

Anche l’aver raccontato in questi anni – salvo rare eccezioni – solo le condizioni precarie del lavoro svolto dai fattorini, senza dare il giusto peso e rilievo al fenomeno della gig economy in generale, ha contribuito alla creazione di un’attenzione parziale da parte del mondo politico italiano.

Come se il lavoro su piattaforme digitali fosse solo quello svolto dai fattorini di Deliveroo, Foodora, Glovo, Uber Eats, Just Eat, Supermercato24 e via dicendo.

Bisogna anche dire che in questo dibattito poche volte è stato tirato in ballo il ruolo del consumatore, anche in rapporto con l’azione sindacale, e quanto possano contribuire – in termini di diritti e tutele per i rider – le imprese di vario tipo che firmano le partnership con le suddette società di delivery tramite app.

D’altro canto, i numeri pian piano parlano sempre più chiaramente: i fattorini sono solo una minima parte del fenomeno della gig economy in Italia. Circa 7-10mila su 700mila-1milione di lavoratori delle piattaforme, secondo le statistiche della ricerca realizzata la scorsa estate dalla Fondazione Debenedetti.

Questo è solo lo studio più recente realizzato in Italia che ridimensiona, tra l’altro, la gig economy rispetto ad altri studi internazionali sull’Italia che ci propongono cifre ancora più importanti.

Vedi il progetto Digital Footprint di Uni Europa, Università di Hertfordshire e Fondazione Europea degli studi progressisti che ha calcolato in 5,3 milioni i gig workers italiani che accedono alle piattaforme di lavoro su base settimanale.

Certo, i fattorini sono da tutelare e rappresentare al meglio. Ci mancherebbe. Tuttavia normare solo la punta dell’iceberg di un fenomeno – molto mediatizzato, appunto – che ha molte sfaccettature, che va ascoltato, compreso e gestito nel suo complesso rischia di creare ancora più distorsioni e disuguaglianze in un mercato del lavoro come quello italiano che già non brilla in quanto a dinamismo e creazione di nuovi posti di lavoro.

Intanto, se guardiamo al di là delle Alpi, notiamo come il dibattito per una legge sulla gig economy sia già inquadrato in maniera più sensata.

Certo, anche lì con tutti i pregi e i difetti che la politica anche all’estero può avere. Sempre migliorabile, come dire.

Allora vediamo come in Germania il dibattito sull’arbeiten (lavoro) 4.0 ha prodotto un “libro bianco” a cura del ministero del Lavoro, anche se le azioni dell’attuale governo prevedono solo piccole modifiche a schemi contrattuali già esistenti.

Tuttavia, la cancelliera Merkel, durante un incontro sulla digitalizzazione insieme a imprese e sindacati, ha citato proprio il crowdworking e il lavoro su piattaforma. Segno di una presa di posizione sull’intero fenomeno.

D’altronde, in Germania è già presente pure un’associazione di crowdworkers che coinvolge diversi attori sociali e applica già alcune regole per un lavoro equo e dignitoso.

In altri Paesi come il Regno Unito e l’Olanda i governi hanno istituito commissioni di studio. Il problema, in questi casi, sono i tempi incerti per portare a termine i lavori.

In Francia un recente intervento legislativo (la loi travail dell’agosto 2016, il Jobs Act dei francesi) ha fissato alcuni diritti minimi per chi lavora attraverso piattaforme digitali (assicurazione contro gli infortuni, corsi di aggiornamento, diritti sindacali). L’unica questione rimasta in ballo è lo status giuridico dei lavoratori, dato in mano per il momento ai giudici dei tribunali.

Inoltre, con la legge “Pénicaud 2”, una recente norma della scorsa estate sulla formazione professionale e altri aspetti del mercato del lavoro francese, si è messo in atto un tentativo di inserire un articolo (il n° 66) per stilare una “Carta dei diritti e obblighi” per definire la relazione giuridica tra piattaforma e lavoratori.

Il Consiglio costituzionale l’ha bocciato per un vizio di procedura rimandando l’opportunità – nel bene o nel male, dati i commenti pro e contro il suddetto articolo – di definire una legge sulla gig economy francese.

Nonostante anche all’estero ci sia un dibattito ancora a rilento, l’inquadramento complessivo del fenomeno però sembra abbastanza chiaro.

Cosa fare per i rider della gig economy?

Noi siamo dell’idea che nel caso di attività lavorativa pienamente coincidente con l’oggetto sociale dell’impresa, il rapporto di lavoro dovrebbe essere qualificato di tipo subordinato.

È necessario adattare gli indici di subordinazione – potere direttivo, potere disciplinare, organizzazione del lavoro, orario e paga – al contesto produttivo della gig economy.

Va preferita una subordinazione “attenuata” considerato che anche nel caso di subordinazione può essere riconosciuto un elevato margine di autonomia nello svolgimento della prestazione.

Laddove si restasse nell’ambito della parasubordinazione, bisogna rendere effettivo l’articolo 2 del decreto legislativo 81 del 2015, dove per le cosiddette collaborazioni etero-organizzate si prevede l’estensione della disciplina del lavoro subordinato ai prestatori di lavoro.

In ogni caso è opportuno garantire alle parti sociali e quindi alla contrattazione collettiva di disciplinare il rapporto di lavoro dei lavoratori della gig economy quantomeno in materia di:

  • Compenso minimo
  • Monte ore minimo garantito
  • Tutela di salute e sicurezza sul lavoro
  • Tutela della privacy e dell’attività lavorativa

Le piattaforme più mature dovrebbero offrire contratti di lavoro subordinato per quel contingente di lavoratori che garantisce il grosso delle commesse.

Dopo una fase di avvio, le statistiche e i dati raccolti possono contribuire a definire un numero di assunzioni stabili, a tempo pieno e/o parziale – tenendo conto delle fasce orarie in cui certi servizi sono maggiormente richiesti.

Le società potrebbero tuttavia continuare a servirsi di collaboratori – prevedendo anche un riferimento alla disciplina sui contratti di lavoro intermittente, da definire tramite contrattazione integrativa aziendale – per far fronte ai picchi.

Una proposta di legge sulla gig economy in Italia

Leggi la nostra proposta completa per il lavoro sulle piattaforme digitali in Italia.

 

Foto di Bruno Martins su Unsplash