Una legge sulla gig economy in Italia sembra farsi strada, nonostante la “morte” del tavolo ministeriale di Di Maio sui rider.
C’è una grossa e importante novità: la proposta di legge sulla gig economy in Italia regolerà tutto il fenomeno dei lavori su piattaforme digitali e non solamente il lavoro dei fattorini delle aziende di food delivery.
Le tre proposte di legge in fase di discussione alla commissione lavoro della Camera sono state presentate da Debora Serracchiani (Relazione – Proposta di legge), Jessica Costanzo (Relazione) e Niccolò Invidia (Relazione – Proposta di legge).
La Commissione lavoro ha già fatto pure cinque audizioni nel 2019 (il 18 giugno, il 25 giugno e il 2 luglio, il 9 luglio, il 30 luglio, il 2 ottobre) con le parti sociali e altri stakeholders per ricevere contributi e commenti alle tre iniziative di legge dei deputati.
Chiaro che questi sono solo i primi passi verso una legge che affronterebbe per la prima volta il lavoro tramite piattaforma online a livello nazionale e in maniera complessiva.
I numeri della gig economy in Italia
Ricordiamo che i lavoratori italiani che usano le piattaforme digitali sono, secondo le stime della Fondazione Debenedetti presentate nel Rapporto Inps del luglio 2018, circa 700mila. Di questi, solo circa il 12% sono rider. Quindi 7-8mila in totale.
Mentre, secondo la ricerca “Digital Footprint” condotta da Uni Europa, l’Università inglese di Hertfordshire e la Feps (Fondazione Europea Studi Progressisti), in Italia le persone che accedono alle piattaforme digitali per cercare lavoro sono circa 5,3 milioni; mentre sono circa 2,5 milioni quelli che guadagnano fino al 50% della propria retribuzione.
Come inquadrare bene la legge sulla gig economy in Italia?
Al netto dei numeri, leggendo le relazioni parlamentari, si sconta ancora una forte influenza del fenomeno dei rider sul ragionamento più generale.
Questo potrebbe complicare le cose soprattutto se non si attua una giusta categorizzazione dei lavori tramite piattaforma.
Cioè dei cosiddetti lavori on demand tramite app (come quello dei rider, ma anche del lavoro domestico, dei lavori artigianali, ecc.) e del crowd work (cioè del “lavoro della folla”, che abbraccia diversi lavori svolti soprattutto tramite pc: dalla realizzazione di contenuti multimediali allo sviluppo software, dalla progettazione alla traduzione di testi, dalla moderazione di contenuti digitali alla compilazione di sondaggi, e via dicendo).
Soprattutto se, oltre alla suddetta categorizzazione, non si fa una giusta suddivisione del tipo di piattaforma digitale che offre queste opportunità lavorative.
Quindi se siamo di fronte a lavoro subordinato, a lavoro freelance o a mera intermediazione di domanda e offerta di beni e servizi.
Cosa si fa all’estero per la gig economy?
Se già in altri paesi europei (in Germania e Francia, per esempio, sono pure attive associazioni di rappresentanza per il crowd working) sono presenti delle norme che disciplinano in qualche modo queste forme di lavoro, in Italia siamo ancora all’inizio.
Le iniziative di legge sulla gig economy “dal basso”
Le uniche iniziative politiche presenti in Italia sono nate dal basso, si fa per dire, grazie all’interesse di alcune regioni o del Comune di Bologna, come caso particolare a livello locale.
Negli ultimi mesi infatti sono state realizzate alcune proposte o iniziative dalla Regione Piemonte, Regione Toscana, Regione Umbria, Regione Emilia Romagna e dal Comune di Napoli.
Invece la prima legge a livello regionale che fa passi avanti è quella della Regione Lazio che in ultimo non è stata impugnata dal Consiglio dei Ministri e che ora resta in attesa solo dei procedimenti attuativi per entrare in funzione.
Cosa si potrebbe già fare?
La realtà è che sarebbe bello che al posto di una legge sulla gig economy in Italia ci fossero tavoli di trattativa tra aziende e sindacati per definire una forma di contrattazione collettiva per i lavoratori della gig economy.
Le buone pratiche sulla gig economy
Com’è successo in Danimarca per la piattaforma digitale di lavoro domestico Hilfr.dk o come è successo per i corrieri britannici di Hermes, o la Carta di Bologna per i rider bolognesi.
Alla fine ci vuole solo una maggiore consapevolezza da parte dell’azienda nel trovare soluzioni che garantiscano diritti e tutele alla propria forza lavoro, una responsabilità sociale d’impresa e una sostenibilità del business che come si legge sopra è possibile se si ha la volontà di andare oltre i vuoti o i ritardi della legge e della politica.
[…] questo approccio possa essere utile per il prossimo progetto di legge sulla gig economy in Italia? Ai posteri l’ardua […]
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